Qualche sera fa me ne stavo su un profilo facebook che frequento volentieri a leggere i commenti sul commento di un esponente clericale alla morte della giovane statunitense malata di tumore al cervello. Il caso è noto, o forse no, perché poi dai commenti facebook si evincevano molto bene le posizioni di ciascuno ma poco di nomi, fatti, date, parole.
Ma questo, di come funziona la democrazia ai tempi del noial network, è ancor più noto.
Fatto sta che mi sono letta volentieri i commenti, tutti urbani, educati e anche di sostanza, almeno per me. Riassumibili così.
Il medico -che ci teneva a ribadire spesso di esserlo, un medico- non aveva stupore nei confronti della posizione del Vaticano che se Vaticano vuol esser Vaticano dev’essere. Ma il nocciuolo interessante della sua tesi era che un medico vive un fallimento abominevole della relazione di aiuto tra medico e paziente se una giovane, alla notizia della malattia, sceglie di uccidersi prima che tale malattia la renda invalida invece di affrontare la cura.
Il veterinario, distinguendo tra medici “umani” e medici veterinari (a volte un aggettivo scappa alle intenzioni degli scriventi e arriva dove può arrivare), si riteneva maggior conoscitore di cosiddetta eutanasia e, da comportamenti animali davanti al dolore, ridava un significato alla parola dignità vicino al verbo morire.
Seguiva distinzione da parte di entrambi nella definizione di suicidio ed eutanasia.
Seguivano anche due commenti di persone non autoconnotantesi per professione ma per esempi di “quando è successo a mio nonno” e invece di “quando è successo al mio”.
E nel mezzo molti “se accadesse a me, io”
Io. Io li ho letti e nello svolgersi del dialogo, mi sentivo, senza più stupirmene, più vicina al punto di vista del medico. Forse perché la prima volta che mi hanno restituito il mio primo micetto, dopo la siringa che gli alleviò l’infame sofferenza di morire per asfissia come natura avrebbe fatto, la scatola non pesava un millesimo di cazzo di nulla e io pesavo di colpo e di colpa tutto il dolore infantile del mondo.
Fatto sta che c’è l’io, mentre si legge e ci si aspetta che quello che proviamo abbia valore perfino universale.
O c’è Dio e una fede più o meno incrollabile che, ad un certo numero di commenti, ha fatto dire al medico “umano” che si sarebbe astenuto dal commentare oltre, visto che nessuno capiva quanto stesse affermando. Bontà sua e dell’io.
Io. Ci si aspetta sempre qualcosa. Nella vita così come nei social.
Ho una coppia di amici sposati che non ha figli. Non ho mai chiesto loro se è perché non ne vogliano o perché non riescano. E non perché io sia sta gran maestra del farmi i cazzi miei. Piuttosto perché mi aspetto qualcosa e dopo non mi salverei dal dire, “fanculo questi possono e non vogliono, e io…”in un caso oppure “ah, ecco spiegato perché hanno appena preso un altro gatto”, nell’altro caso.
Perché l’argomento in questione è una forca caudina del mio io.
Ma succede anche quando non lo è; ci si aspetta che qualcuno cui fai un dono ti restituisca un feedback (ti è piaciuto il libro?, hai usato gli elastici per tonificare il deltoide?, come ti sei trovata col frullatore a tre velocità?) e la risposta non ritorna. Ci si aspetta che l’uomo che hai tanto amato si ricordi per sempre di te, anzi, che capisca che tu eri la migliore; ci si aspetta che torni perfino a dirtelo. Forse lui si aspettava qualcosa che lo fermasse dall’andarsene, e non ha aspettato abbastanza.
A volte sono aspettative che ci proteggono dalla paura di essere dozzinali.
Del resto ci si aspetta, ce lo hanno insegnato da piccini, quando i primi che ci stringono e ci allevano si aspettano tante di quelle cose, tutte, tranne di vedere amplificati i loro io.
Che contraddizione, data la misura inevitabile dell’io.
Forse questa scrittura è tutto un chiedere scusa a chi si aspettava qualcosa da me mentre ero distratta o nebulosa o incattivita o che so io; ma non credo perché, quando sono distratta nebulosa e incattivita, di solito mi aspetto che gli altri capiscano senza bisogno di scuse.
O è un nuovo chiedere di aspettarmi.