Modern love

Quattro ore di corso di formazione su un argomento di cui nulla ti frega, una collega cui non sai dire di no per un rapido pranzo quando avevi già detto sì agli amici dell’ufficio con Netto in testa. Per cui ci ho perso. Forse.

Esco dal buio del corso, c’è ancora la luce, potenza dell’Alma Venus e di quel cacca di Zephiro che torna e il bel tempo rimena, firmo la presenza, passo per il corridoio e dico “adesso entro in ufficio, di nuovo, sarai ancora lì Netto, così ti dico che lo so come stai, che però se non trovi una strategia di sopravvivenza affondi e mandi all’aria le doti e i doni che colui in cui tanto credi ti ha dato a profusione”

E invece tiro dritto, all’auto, accendo, si accende l’autoradio e perfetta precisa precisa, parte quella che è una delle mie canzoni preferite tra quelle che appunto devo ballare e ci arrivo quasi a casa ballando nell’abitacolo. Se mi fossi fermata, non sarei stata così felice, seppur di poco.

Perché lo so, quella rottura di palle di storia che la felicità è tale solo se condivisa, lo so che sono ansie da infinito, sinestesie per sfuggire ciascuno alle proprie morti ma.

Ma fregnacce. Se questa felicità non la divido faticosamente a metà, me la godo solo e sola tutta intera. Mia. Di chi la vuole davvero e ha lottato per volerla perché

I know when to go out
And when to stay in
Get things done

 

fino all’osso

di Ponci Ponci adesso che è un ometto, che fa le elementari, che non ha voglia di leggere anche se sta amando le storie di Vivian Lamarque mio dono natalizio, di Ponci Ponci non scrivo quasi più, sarà che da mocciosi son meglio ispiratori.

Oggi però Ponci, piccolo ciclista agonista, mi raccontava di esser contento della nuova bicicletta perché con quella vecchia gli si rompeva il pisello (cit.) e ci ha tenuto proprio a precisarlo, zia, ogni volta che scendevo mi rompevo il pisello. Silenzio di tutti a pranzo.

Poi zia che è serafica, assai, lo ha guardato e “tranquillo, Ponci, non si rompe, non è un osso”. La perplessità degli astanti cresceva come al cinema.

“ma zia, – e qui sapeva la serafica zia, se lo sentiva dove sarebbe andato a parare – se non è un osso perché io una volta in bagno l’ho trovato in alto che guardava all’insù”?

Zia che è molto serafica, assai assai, ha riposto e ora si aspetta di venire a sapere che un settenne di logica ferrea imparentato con lei renda edotti parenti compagni e maestre tutte su corpi cavernosi e afflussi di sangue.

Ponci termina l’argomento con un “insomma il pisello cosa fa, può guardare in alto, guarda le stelle?”; e zia serafica, assai assai assai, fino all’osso, gli ha risposto pressapoco un “quando è in vena di romanticherie, sì, ma tranquillo che non succede spesso”

 

Il motto del 2017 è quindi opera di Ponci e sta a mezzo tra un viviamocela serafica e un fino all’osso.

‘cause I try and I try and I try

Quando due anni fa accettai di candidarmi a tale carica, non sapevo minimamente, gnuranta che sono, a cosa sarei andata incontro, di cosa si trattasse, bastava una tessera perché venissero a cercarti. E la tessera c’era e c’è.

Due anni di rappresentanza sindacale; ad ogni assemblea sono due anni di vita che consumo. Roceresindacale.

Lo dico in ufficio, mi rispondono “non ho necessità alcuna di sviolinarti, sai, ma lo fai proprio bene” E ancora il buon Netto “sono contento, le persone cominciano a conoscerti ed apprezzarti in questo ruolo, apprezzano le tue capacità di mediazione”

Mediache? ahahahahahaha

Dovrei dire a Netto che durante le lunghissime riunioni di contrattazione l’unica cosa intelligente che a tratti penso, in mezzo a quei numeri, è “baciami stupido”.

Intanto la scuola va, l’inverno procede, il gatto si stiracchia, la simulazione di mutuo mi ha depresso, sabato andrò da un parrucchiere e a casa han detto “addio piangerà tutto sabato sera”, il pensiero è continuamente materia.

Tranne per lo stupido, che non bacia.

that’s no way to say goodbye

Quattro anni fa tu che ti amavo tanto non c’eri già più, c’era solo un albergo a Venezia.

E c’era tenersi le mani con quegli amici; qualcuno anche di loro, lo è meno, da tanto.

I0 c’ero qui: e sono commossa solo a ricordarlo, trovassi il video in cui si sente solo la voce tonata su quel lalalalala lala lala lala lalalalalala laa la laaa

Oggi non c’è più nemmeno quel distinto signore col cappello che ci ha uniti tutti tu, me, loro.

Solo un errore, errare, potrebbe farvi passare di qua.

Nel caso, è per voi:

 

 

 

The way we were

Succede che tutto sembri sgonfiarsi loffio come una bolla fatta col chewing-gum, succede che alla tivù a giugno diano vecchi film e tu ne hai mancato uno, del 1973, e decidi di vederlo proprio adesso, convinta che sarà un classicone, un riempitivo.
E ti trovi a vedere invece un pezzo di te. Proprio tuo, che ci avevano inventato prima di noi, io molto Cathy tu quasi Hubbell.
Ma quanto faccia poi bene piangere con un film, quanto, che meraviglia.
Entra nella top-ten dei miei film della vita. O è un capolavoro o sto semplicemente davvero invecchiando.

“Tu non molli mai”.
Come eravamo. Così.

Rotta e motto

Pur essendo capace delle più becere lamentele e scassature di uallera al cubo anche solo per essersi fatta tagliare i capelli male che ora proprio non si può vedere allo specchio, Sansona qua; che poi apprezzerei le amiche quando ti dicono “non ti sei rotta di essere così lamentosa per niente”, cioé apprezzerei anche i tre quarti di sincerità; pur essendo ipocondriaca ma meno molto meno del medico di base che se gli dico meno, pausa, rilancia con pericoli di vita, e rinfrancanti contraddizioni.
Pur avendo perso smalto nella capacità di scegliere bene il meglio per se stessa, giurando notevoli propositi di rientri di rotta.
Ricevo una telefonata sul numero di casa a ora serale inoltrata e ho in linea Palermo che mi passa New York.
Due donne bellissime che non si conoscono che vivono su due punti distanti climatici del planisfero hanno in comune fino a dicembre solo me.
E in nome di questa me si incontrano, si piacciono, progettano il reincontro, duemilasedici, in tre, si fa.
Allora mi sono commossa, mi sono sentita meno stupida, coi capelli più a posto, meno rotta.

Avrei voluto trovare un motto per l’anno nuovo, ma poi qualcuno mi ha detto ” motti non ne penso che poi tanto me li dimentico “. E riderne, e riconoscere la rotta.

P.S. a chi ha la pazienza ancora di sorbirsi i miei sbrodoli, seppur una riga sì e magari tre no, AUGURI.

P.S bis: il duemilasedici trattasi di anno bisestile, cioé quella volta che ogni quattro anni perfino io.

Come da rituale

Come da rituale, ho scelto un mio dress code allegro, fiorato, stavolta significativo il doppio perché dono dell’amica e (finalmente ancora quasi su una quinta, ih ih) collega Noise, ho sfidato la coda delle Moms on the Suv di tutta la provincia allineate sotto la pioggia, sono entrata in tre delle quattro classi assegnatemi quest’anno, ho pure già spiegato Manzoni e fissato una verifica per mercoledì.

Poi, come da rituale siamo andate a pranzo fuori, sul lago, perché ho chiesto loro se avessero per caso voluto condividere con me questo mio rituale.
E mentre, sedute, usciva perfino di nuovo il sole, ho pensato che quattro professoresse un po’ amiche un po’ sconosciute, un po’ colleghe della stessa scuola, un po’ no, un po’ di ruolo un po’ ancora assurdamente precarie che han detto sì al mio rituale, possono essere bellissime, il primo giorno di scuola.

Acqua e neve

Acqua e neve, seguendo l’altitudine, così oggi, uscita da scuola, vedevo le auto incofanate di bianco, e poi intorno era finalmente tutto gennaio, le mie prealpi sfidavano gamme di grigio impraticabili dai lapis.
E allora sempre a chiedermi se vivo appena appena meno alta di quanto basti ad essere bianca.
Me ne sono andata da questo scrivere, che si fa così in rete, direte, vi dico che non ho trovato il motto, o ne ho trovati cento e mentre cercavo parole per iniziare un anno, l’anno è iniziato da solo, il mondo si è riempito di cose troppo difficili per questa prosa da niente che ho, così ho lasciato atterrare aerei, ricevere messaggi, salire sulle auto, riprendere treni, 77 temi che aspettavano solo la Befana, ricevere madri cattive, allora meglio i messaggi e poi non trovare le mutande.
Come possono sparire delle mutande, così, mi chiedo, senza nemmeno che siano arrivate alla lavatrice.
Eh, sì, mi mancava la malizia di chi ora è lì a dire era ora, che ti sparissero le mutande tra i meandri del divano birbone, perché lo so che siete lì a pensare che saranno nei dintorni del divano, e pensate anche il tutto dopo una domenica pomeriggio in cui qualcuno con gli occhi azzurri, e qui vi sbagliate, che chiedetevi prima come mi piacciono a me gli occhi, azzurri è banale.
E poi, gennaio è iniziato da un pezzo, ho da fare, c’ho i Comeback che quasi si fanno bocciare, e c’han l’esame, ciànno, e voi qui a cincischiare, a farvi dar retta, su come e dove e gli occhi e le mutande.

L’etimologia di mutande, poi, tenetela presente. Che ai Comeback s’è dovuto spiegare anche chi sia Priapo e ho detto non cercatelo sul web adess ops, dice Ventodi(sup)ponente mentre smanettava il cellulare, dice e si è fatto di porpora, dice troppo tardi, prof. E poi all’intervallo tutti affermano di aver visto Priapo e quanto ce ne sono, di tipi, eh Priapi.

Ma voi preferite l’acqua o la neve? E vi piace gennaio? E secondo voi lo indosso bene il nome di Heidi? Mi sorridono le prealpi. Sarà l’acqua, la neve, gennaio, chissà.

Scappo, stasera broccoli, zuppa di cipolle, quante cose, scusate.

Col corpo capisco

Lei, la giovane, la praticante, ha lo strappo più rapido ma più insicuro; l’altra, la datrice di lavoro, si perde in chiacchiere spesso, chiacchiere che a volte evito portandomi perfino un libro.
La giovane è assertiva, ubbidisce paziente ad ordini anche contraddittorii, repentini, a tratti la padrona del negozio la sgrida per un nonnulla, che si capiscano i ruoli.
Sono lunga distesa, vuoi prona vuoi supina, loro ci sono entrambe, su di me, una gamba ciascuna. Se chiudo gli occhi posso indovinare dallo stendere la cera, dall’appoggio dei polsi, chi tra le due quale gamba stia trattando.
La giovane, precisa, è prassi, sulla pelle arrossata comincia a lavorare in punta di pinzetta, l’altra la segue a ruota.
Le pinzette delle professioniste sono aghi.
Al primo minuto ricorda sempre una miriade di granelli di sabbia grossa simili a quelli della spiaggia del Guincho che per una raffica di vento non improvvisa ti arriva a settanta chilometri orari sulle cosce. Al limite, tafani.
Poi la sensibilità decresce, il formicolio diventa scossetta, il dolore diventa una confusione di piacere, fa il giro dagli alluci, punge sotto la schiena- in quel punto dove lui mi diceva sempre “senti, e toccava, qui avevamo la coda”, arrriva col rumore del calice in frantumi, fa brivido sul cuoio capelluto.

Deve essere una questione di segno zodiacale, la schiena, il cuioio capelluto, l’immagine più erotica, instintiva, la schiena che più si inarcava, più lui in quel momento mi tirava forte i capelli. “Senti, e tirava, qui avevo la criniera” .

Prima, prima, prima, prima di sapere tutto, lo immaginavo, il piacere, quel male energico di quando mi strofinavano i capelli.
Col corpo, capivo.

Chi semina vento

Tutto comincia alla cassa di un supermercato, il giorno in cui ti senti mediamente cessa, ti sei fatta una treccia storta quella coi nastri dentro e al lavoro ti han detto “sembri un’americana stamattina”. Ti tieni il fanculo in mezzo ai denti e te ne vai al supermercato.
Alla cassa vedi un ragazzo. Barbetta di un paio di giorni, occhi intelligenti, una borsa a tracolla, lo guardi, è bello. Anzi, è un fico da cassa del supermercato. Lo guardo tra l’avido e l’intreccio della treccia e penso “guardami guardami sorridimi, chiedimi se voglio un caffé”.

Tutto va avanti a casa, dall’alto del balcone vedo che il tizio, l’imbecille, che ha una rottweiler di quelle che ogni volta che mi muovo in alto sul balcone, dal basso mi abbaia e mi abbaia e mi abbaia, poi ancora mi abbaia, io dico fottiti alla rottweiler perché sto in alto e lei in basso, bau. L’imbecille è lì che carezza la pancia della rottweiler a gambe all’aria. Dall’alto parlo per la prima volta al padrone della rottweiler, dico, non ci credo, mai vista così, la rottweiler, dico, infatti non mi abbaia, e lui alza gli occhi al balcone “ma guarda che è buona sai” e io guardo sto ragazzo sempre visto mai guardato, barbetta di due giorni, un sorriso limpido, due occhi come due fessure blu di un taglio sti occhi più bello molto più bello di quello che ho sempre pensato fosse il più bel taglio d’occhi. Sti occhi blu dal basso aggiungono “ti abbaia perché non ti conosce, se ti leccasse…”. Ecco, sì se mi leccasse…

Tutto finisce alla cassa, stavolta del ferramenta, capelli in uno chignon, vestito lungo nero, mi serve un sacco di terriccio, da 40. Che, pollice nero o no, mi sono iscritta a un gruppo facebook di “orto sul balcone” e ora il mio balcone è tutto un semenzaio di melisse dragoncelle basilichi grechi a palla, prezzemolo, timi, lavande. Che non so se avete presente che un sacco di terriccio da quaranta è pressapoco alto come me che non sono tanto alta per non essere un sacco di terriccio. Generico, eh, non quello da gerani. Trascinate voi un sacco di terriccio alla cassa del ferramenta con un vestito lungo stretto al polpaccio con la commessa che dice “poteva anche prenderlo dopo all’uscita”. E sentire una voce alle spalle. Un ragazzo, carino, ben spallato pure. Dice “se vuoi ti aiuto io a portarlo all’auto, il sacco” e io “no grazie, devo farcela da sola, sai com’è”

Sai com’è che son cretina.
Che il semidio dei feromoni sia con me.

È il quarto giorno di vento battente sul lago. Ci vivrei per sempre a vento battente. In praterie azzurre arruffate dal vento.
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