Recensire libri non è il mio mestiere. Premessa.
Ci ho messo due mesi e dico due mesi a finire il libro di Elizabeth Strout. Inizialmente avrei potuto pensare che non mi piacesse, è un libro di racconti e io coi racconti faccio fatica, non ci vo d’accordo. Poi quella mania che se inizio un libro di giorno lo devo portare avanti con la luce del giorno e se lo inizio di sera non riesco a leggerlo se c’è il sole.
E le giornate al lago finiva che non ero mai sola e la chiacchiera prevaleva sulla lettura, di quei racconti così tristi. Costruiti però in modo che la protagonista, antipatica un bel po’, quasi più di me, secca e di indole appuntita, fosse il fulcro della narrazione anche quando la narrazione avvolgeva altri personaggi.
Tutti a muoversi tra le maree e le stagioni di un luogo molto charmant, un Maine che conosco bene, avendolo girato anni fa in lungo e largo.
Poi a rallentare sono arrivati i giorni broccolinesi con altre doverose letture in altra lingua.
E poi l’incidente diciamo così alla gamba, che mi ha tenuta in castigo senza lago e insieme a Olive Kitteridge, centellinata un poco al dì, luce del sole.
Quando ho chiuso il libro è stato come non averlo chiuso mai, ci sono rimasta intrappolata dentro. Una sensazione quasi mai provata prima. Non di immedesimazione, impossibile con l’austera Olive Kitteridge; più di essere il personaggio di seguito del racconto mancante, in una casa, in un’età, in un fervore che non se ne vogliono andare.
Il finale del libro è straordinario, quasi commovente.
Mentre leggevo, due mesi quindi a centellinare, ho scoperto che è già pronta una serie tv per la HBO voluta e recitata dall’attrice che apprezzo di più, Frances McDormand. Non è la Olive Kitteridge che ho immaginato io (ovvio) e non ho mai seguito una serie tivù in vita mia, non avendone nemmeno i mezzi.
Sarà interessante fare un’eccezione.