C’è qualcosa di buono nel prendersi un giorno di ferie e stare alle otto del mattino già con la vaporella in mano; perfino nella disinfestazione dalle pulci c’è qualcosa di buono.
Rimettere tutto a posto nella pia illusione di buttare ancor qualcosa sapendo che è il terzo giro che fai in un mese e non riesci proprio a staccarti dalle cose. Da certe cose.
Estate. Gente che pensa “mare”, gente che pensa insetti, sudore, insetti, ottobre quando?
Poi la stampa di un biglietto elettronico di trenitalia. Da Milano Centrale il 12.08.2007 alle 12 a Napoli Centrale il 12.08.2007
Delle cose accadute all’arrivo, per ricordarle, faccio una fatica immane. Ma giro il foglio (sì ho in giro cartacce inutili dal 2007 e allora?) ed ecco che appare, grafia minutissima, il piano di lavoro di un romanzo che avrei dovuto scrivere a partire da un’illuminazione avuta sulla spiaggia di Meria, in Corsica. Nel 2007. E sotto una poesia. Forse gli ultimi versi che Musa musetta concessemi.
Volevo trascriverli qui ma forse lo faccio su feisbuk così vedo quanti like prendo. Meglio prendere like che le pulci.
Però è estate e mettendo a posto i libri ho visto delle dediche, anche autodediche, e non è escluso che sto blog dimenticato dai blog e dagli uomini apra una rubrichetta leggera, estiva, appunto, che si chiamerà “il futuro nella carta” per vedere che ne è stato, del futuro, in quelle dediche.
Sempre che finisca di passare vaporella e insetticida, eh
Assonnata la faccia mentre salivo in auto di amici che chiesero vieni con noi da un’amica? Per la proprietà sacra e transitiva e antipigrizia del “les amis des amis sont tous mes amis” che, sentite bene, è un franco meneghino, salivo in auto sull’autostrada più bella d’Italia priva di traffico e di autogrill e all’uscita dal Turchino che nessuno mai spianò la nebbia Piemonte diventa ligure sole.
E vento. Tra Ovada e Masone.
E l’amica da raggiungere è una donna splendida che si occupa di una cosa bellissima, la casa dei cantautori, in via del Campo. Cioé mica una Genova a caso.
Che io poi la conoscessi già questa città ma camminarla insieme a chi te la racconta parola di Faber dopo parola di Faber sotto una sua chitarra, anche, è stata tutta un’altra storia.
Camminare Genova tra le sue scritte sui muri, con chi lavora in libreria davanti al mare, chi lavora sull’ascensore di Renzo Piano, chi in un bugigattolo dove formano dei superlativi cioccolatini, con chi lavora a che il centro storico non venga abbandonato del tutto all’illegalità, con chi cucina il merluzzo fritto secondo tradizione ma ha gli occhi a mandorla.
Camminare fino a calpestare e capire per la prima volta davvero com’è acciottolato un creusa de ma’, camminare fino alle sinestesie di campopisano.
Con quella faccia un po’ così e un vestitino nuovo comprato lì (ah, i ricorsi; anche un’altra volta accadde di restare attaccata a una vetrina di vicolo e tornare con un pomeriggio di Genova vestito addosso), quell’espressione un po’ così, la professoressa roceresale se ne è tornata a scuola seminando complimenti per quanto è carina ultimamente coi vestitini della befana e un ciuffo di mare tra i capelli.
Nemmeno poi parlassero di me.
Ps. Pare che su Rai1 alle 11.00 del 23 gennaio la tivù abbia a mostrare un po’ del cuore di questo post.
In una settimana appoggi due volte sulle tue spalle la testa di un’amica davanti alla perdita di padre radice. Padre radice che non capisci come, sdraiato sopra stoffa di raso bianco, lucido; padri radici quanto innaturale diventa il tuo colore.
Non so consolare e davanti alla morte sono una bambina, ingenua, incredula.
Come davanti all’amore, che la smetta pure di bussare. Non so più dare.
Porto al polso in dono un braccialettino con campanelline che pare sia simbolo di protezione della fertilità. Suona, e fa un po’ “monatto”.
Smetto di difendere gennaio, come faccio, apro un’agenda tra le tante, sceso a terra il televisore, tolto il coperchio alla cassapanca che ad alcune si può (non si dovrebbe). So cosa cercare; quale; ricordo.
7 gennaio 94 ore 17.20
pioggia di gennaio – ma non dicevi-
“scivola lentamente a primavera”
questo mese?
Solo ore trascorse sulla riva
(message in a bottle)
può essere la mappa del tesoro
o questa silenziosa richiesta
di aiuto, amore.
La pioggia di gennaio – si ostina
a contraddirmi il tempo.
Questo allora e adesso; che importa il tempo che fa, santa voglia di scrivere e…
Ci siamo. Siamo al gelsomino notturno. Siamo alla mia débacle personale e reiterata.
È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
Domando a CuorediTenebra: cos’è, a cosa si allude. Risponde: “ehhhh, è un post…”
Devo trattenermi dal ridere; insisto (perché io insisto, ellosò mea culpa) , a cosa si allude, i petali, l’urna. CuorediTenebro risponde “al luogo fisico in cui è successo”.
Devo trattenermi dal piangere; domando a Odefreddo: bene, abbiamo capito che è una situazione post qualcosa e si è capito anche il qualcosa e la parte del corpo in cui è successo il qualcosa. Petali gualciti, urna, felicità nuova. A cosa si allude? Odefreddo risponde: “eh, è rimasta incinta”
(Mi è andata bene. Tre anni fa, il Pascoli era rimasto fuori dalla casa a vedere la sorella fare l’amore con l’amico) (io adesso provo con Digitale Purpurea ma la strofa “M’inoltrai leggiera, // cauta, su per i molli terrapieni // erbosi. I piedi mi tenea la folta // erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni! // Vieni! E fu molta la dolcezza…” spiegategliela voi ai Latintristi).
Te ne stai lì a sentirlo scendere il sole, che non fa rumore mica. Quello d’ottobre, poi, che stai lontana dai discorsi “ma che caldo chi se lo ricordava l’ottobre così” “quello dell’anno scorso” “ah sì? non me lo ricordo”. Poi stai lontana anche dai discorsi del devo fare il cambio armadio, che te lo stai facendo da luglio te, non l’hai mai finito, hai deciso: siccome stai da sola, occupalo a quattro quarti le quattro stagioni e ciao; ecco i pantaloni da neve e la sciarpa rossa che non ricordavi. Troppe cose da riconoscerti addosso, forse.
Hai questa mancanza a forma di groppo in gola, una mancanza che non stemperi, leggi di chi si fa donna per amare una donna che ama una donna ma che quando é donna da donna ama un uomo. E tu sei inchiodata a un ruolo a metà. Metà donna, donna per caso. Nessuna metamorfosi, nemmeno in asino, nemmeno oro. Leggi poi di pensieri minimi mentre le polveri di torri coprivano l’anima di una città; leggi che stai ascoltando una musica, il jazz che ti lucida, che si chiama New York Days e tu non l’hai nemmeno fatto apposta, a prenderlo dallo scaffale. Ti sei solo donata un pomeriggio di cui ti penti, già lo sai.
E stai lontana anche dai discorsi dell’ora in più da dormire, l’ora legale. E dai discorsi di chi la confonde con quella solare (appunto). Non stai lontana dal pc, una piccola mania, perchè ci cerchi, ci trovi, ci azzardi, ci ripensi. Ma non è lo scrivere che fa; nemmeno il leggere. A tratti é il trattare, è prendere appuntamenti, è scoprirti difficile ancora, almeno però, non più di punta. É Ponci Ponci che te lo fai passare al telefono e sei al lavoro e ti apparti per parlare con lui e gli dici amore mio e mentre lo dici hai una fitta alla milza (al cuore no, il cuore é fin più muto dell’ovaio) e mentre Ponci ti dice “ma la rifai la punta a quello giallo, nonna l’ha rotta la punta”, ecco mentre tutte le punte pungono tu pensi: ma chi mi sente ora nascosta in questi corridoi penserà quello che io non posso pensare.
Insomma sembrerebbe che il sole mentre scende lasci angoli segreti in cui ci sia qualcosa che in me non va ma l’intenzione è quella di celare. Il mio segreto si svela alla guida, sempre. Guidare non mi piace ma le mani alle razze del volante d’altra razza volano nell’aria. Guido per endecasillabi. Ne é pieno l’abitacolo.
Il segreto pare essere che da troppo tempo io manco di poesia.
arrivano che il caffè ha già sciolto il fior di latte e quello che avanza lo berrai amaro come valesse un fioretto fatto per osmosi.
arrivano che ronzano le api, che il glicine ha ceduto e tu mentre scendi le scale i fiori e le api ti sfiorano i capelli ed è un solletico che nemmeno senti alle sette del mattino (il mondo è ancora in ordine).
arrivano il giorno che altre scale portano maggiore fatica ma te ne freghi, le occhiaie ci hai comprato il cosmetico figo, per immaginarti appena un po’ più bella se fingere equivalesse ad abbellire. che lo sai che non lo è.
arrivano, instruiscono il vallum, ti assediano le budella per una manciata di secondi, il tanto che basta a vincere la guerra e si fanno parola. si fanno spedizione all’altro mondo. sono cose che non t’importa più se hai vinto o perso. Cose che cancellano verbi passati. una manciata di secondi, la nostalgia si fa dolcezza.
la fiducia nella vita aveva il tuo taglio d’occhi, amoremio. scrivo tutto minuscolo.
Aveva. Oggi ha il mio. taglio. occhi di un castano pieno, occhi meno stretti, occhi che ci sono cose che non guardano più.
Quando sei ragazza ti approcci alla poesia in vari modi: ho difficoltà a credere che non si passi da Pablo Neruda, prima o poi, e dai suoi sonetti d’amore. Ricordo anche il libro di Skàrmeta, non un capolavoro ma alcuni passaggi, alcuni sintagmi li ho addosso, da qualche parte, a significare la sensualità. Poi fu la volta di Pedro Salinas e sono sicura che come iniziazione tutto questo sia banale, in qualche modo.
E così, va detto, sono rimasta intrappolata per anni nel verso “vorrei fare con te ciò che la primavera fa coi ciliegi”, traduzione antimusicale di “Quiero hacer contigo
lo que la primavera hace con los cerezos”. Certo, semplice, vorrei farti fiorire. Detto da un uomo a una donna, e quando è una donna a impossessarsi di questo verso le va anche detto molla la presa, lascia che tu non ti senta potente nella vita di un uomo. Non capovolgere ruoli.
E’ un verso facile. Apparentemente. Io sono nove primavere che ogni mattina mi affaccio in viadellago, nove primavere che insegno agli occhi la fioritura dei ciliegi, appena sopra la forsizia. Primavere in cui i ciliegi sono fioriti mentre loro guardavano nella mia stanza e sentivano i sussurri; le primavere dopo in cui mostravo loro nuove magrezze, le primavere successive che c’erano tra noi codici, saluti e indipendenza, quella decisiva in cui le persiane ora chiuse ora aperte suggerivano che avrebbero sentito pienezza e senza riserbo gorgoglii sfacciati, la primavera ultima in cui voi ciliegi e glicini eravate tristi e freschi di sfondo ai dubbi della casa.
E poi questa, che ieri e oggi ha giocato coi vestiti della sorella maggiore. Solo in questa ho capito a perfezione la semantica di quel verso. Prende una manciata di ore, la primavera, e spinge. Accarezza fortissima i bracci di quelle piante, gratta a unghie corte come a togliere una crosticina, non è cattiva no. Haud mollia iussa, in pochi giorni, fa scrivere ai ciliegi il suo trionfo. Sono restata giorni incantata a guardare, lì, con cautela. E ora è aprile.
Ci sono piccoli momenti, come questo, che stai strizzando il cencio della cucina ché si è rovesciato il barattolo delle acciughe sott’olio sul pianale del frigidaire e ci hai messo il cencio. All’acquaio con acqua di quella bollente e lo sgrassatore strizzi il cencio e dici, come una lama che ti entra in cuore, ma cosa sto facendo, se questo è il senso di una vita, strizzare il cencio e pensi ma vorrei esser morta.
Ed è un piccolo momento seguito alla telefonata veloce della veterinaria che ti ricorda che la vaccinazione di gatta sta per scadere e tu metti giù il ricevitore e pensi ma non era solo gatta che avrei dovuto vaccinare, quest’aprile. No. E di nuovo la lama sottile.
Un piccolo momento come un amico non tuo, acquisito da lui, ti scrive e ti dice che gli uomini dovrebbero imparare a vivere il presente, senza agganci al passato o progetti di futuro. Cosa è il presente? è questo cencio strizzato? è prendersi cura solo di un gatto?
Ieri, un piccolo momento, prof, ha un momento mi chiede Pollyanna che di solito tace dietro le sue efelidi. Non ce l’avevo un piccolo momento ma mi sono fermata per lei, lei che così studiosa ha preso quattro nell’analisi del testo su Tasso: era il discorso antimperialista di Satana nel quarto libro. Ma Pollyanna non ce l’ha fatta, studiosa com’è, a dirmi che il diavolo ha ragione a scagliarsi contro Dio. E ieri mi dice che si sente in una teca di cristallo, si sente un’ingenua e ora come fa a uscire contro il mondo. Io me la sarei abbracciata in quel piccolo momento, dietro le sue efelidi.
E’ in un piccolo momento come questi che il mio uomo decise di lasciarmi andare. Lo so. Un piccolo momento fatto di una sera a incontrare alunni, a incontrare per caso persone che non incontravo da tempo e che quella sera spuntavano a dire da quanto tempo, che bel ricordo, che bello saperla, magari ci vediamo, mi manca. Poi da soli, una passeggiata nel buio, lui che piange e mi dice non dirlo mai più di essere una persona inutile, guarda cosa lasci alle persone, guarda il bene che sei, il bene che fai. Ma io per questo ho bisogno di fare questo bene a qualcosa di mio, di nostro. Ti dissi lascia che questo bene che sono sia da domani un bene madre. Un piccolo momento in cui il domani fu un risucchio di Supernova.
Un barattolino rovesciato, un cencio unto e strizzato; per il 21 marzo giornata mondiale della poesia non riesco a fare di più.
E questa è la Merini, non è la mia preferita, anzi. Ma non riesco a fare di più
GENESI Vorrei un figlio da te che sia una spada
lucente, come un grido di alta grazia,
che sia pietra, che sia novello Adamo,
lievito del mio sangue e che risolva
più quietamente questa nostra sete.
Ah, se t’amo, lo grido ad ogni vento
gemmando fiori da ogni stanco ramo
e fiorita son tutta e d’ogni velo
vo scerpando il mio lutto
perché genesi sei della mia carne.
Ma il mio cuore, trafitto dall’amore
ha desiderio di mondarsi vivo.
E perciò dammi un figlio delicato,
un bellissimo, vergine viticcio
da allacciare al mio tronco, e tu, possente
olmo, tu padre ricco d’ogni forza pura
mieterai liete ombre alle mie luci
sefamalesoloameeeeee. La citazione è rétro perchè a quel Sanremo lì sono rimasta. Che vinse una canzone ostica per il pubblico medio -mi ripeteva sempre la signora Emilia nelle nostre sere insieme, cara la mia nonnina d’adozione- che la vittoria se la meritava la Goggi anche se vabbè anche per Elisa era bella -lo diceva in mio nome, onesta. ManoiuntempociamavamoconElisaaaaa.
Mi sono alzata canterina a ritroso. Bussa primavera e non va bene. Però il primo pranzo all’aperto della stagione non si può passarlo sotto silenzio. La pace, la quiete, l’odore di forsizia che sgretola le zolle, strisce di neve nera, orme di animali nel fango rigido ma pronto a cedere. Come il mio petto che ad ogni respiro ampio perde un tempo tra il batttere e il levare. Comunque, quando osservo gli animali docili della fattoria, sento spesso di aver sbagliato qualcosa. Me lo dico in una carezza.
Quella carezza estranea ma vera che ieri avrei dato a una bambina di dieci anni. Che darò domani a Ponciponci, diciannove mesi di monelleria e canzoncine insegnate dalla zia. Quella che con la mano non faccio sempre in tempo a dare anche se metto la mano a ritroso verso questo cielo stramaledetto azzurro.