Martedì grasso, pure lui

Arriva quel momento dell’anno tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo che viene voglia a chiunque di antesterie.

Le Antesterie (‘Ανϑεστήρια). – Feste comuni a tutti gli Ionî, ma specialmente note per quelle celebrate in Atene. Il primo giorno, l’11 antesterione (febbraio-marzo), chiamavasi Πιϑοιγία (“apertura delle botti”). Alla sera si spillava il vino nuovo; si beveva allegramente e potevan partecipare alla festa i ragazzi e gli schiavi […] Col tramonto del sole del giorno 12 cominciava la festa dei yÓEg (“brocche”)[…] Ognuno portava con sê una brocca di vino e il pane […] Ad un segnale di tromba i bevitori tracannavano; il più svelto ad asciugare la brocca riceveva un otre di vino o altro premio. La cerimonia religiosa centrale di questa seconda giornata era la sacra processione, che trasportava l’idolo di Dioniso dal Ceramico all’antico tempio delle Paludi (ἐν Λίμναις) attraversando la città. Il trasporto rivestiva uno speciale carattere in quanto la regina, moglie dell’arconte re, accompagnava l’idolo come sposa, assistita da 14 donne (γεραιραί, le “venerabili”), le quali con la regina entravano nel tempio e vi compievano riti misteriosi. Durante la processione era permesso il più vivace scambio di scherzi e di lazzi dai carri in mezzo alla folla travestita e mascherata. (fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/antesterie)

Oppure di falloforie (e qui la fonte cercatevela da soli). Insomma di dionisiache.

Eppure c’è chi mi liquida sempre con un semplice “odio il Carnevale”, “una stupida festa per bambini” e non sa niente di quanto sia importante appena attraversi il confine e la lingua è tedesca. Un po’ colpa mia anche che dico da decenni di voler andare a Köln e poi a Köln non vado mai. Colpa mia che mi dimentico sempre bene di spiegare cosa abbia fatto Sant’Ambrogio. Poi conosco anche la tiritera del divertirsi a tutti i costi che palle. Sapendo che ci si annida la solitudine, dentro (qui un interessante punto di vista).

Io invece sono pronta, prontissima. E infatti piove.

 

Rotta e motto

Pur essendo capace delle più becere lamentele e scassature di uallera al cubo anche solo per essersi fatta tagliare i capelli male che ora proprio non si può vedere allo specchio, Sansona qua; che poi apprezzerei le amiche quando ti dicono “non ti sei rotta di essere così lamentosa per niente”, cioé apprezzerei anche i tre quarti di sincerità; pur essendo ipocondriaca ma meno molto meno del medico di base che se gli dico meno, pausa, rilancia con pericoli di vita, e rinfrancanti contraddizioni.
Pur avendo perso smalto nella capacità di scegliere bene il meglio per se stessa, giurando notevoli propositi di rientri di rotta.
Ricevo una telefonata sul numero di casa a ora serale inoltrata e ho in linea Palermo che mi passa New York.
Due donne bellissime che non si conoscono che vivono su due punti distanti climatici del planisfero hanno in comune fino a dicembre solo me.
E in nome di questa me si incontrano, si piacciono, progettano il reincontro, duemilasedici, in tre, si fa.
Allora mi sono commossa, mi sono sentita meno stupida, coi capelli più a posto, meno rotta.

Avrei voluto trovare un motto per l’anno nuovo, ma poi qualcuno mi ha detto ” motti non ne penso che poi tanto me li dimentico “. E riderne, e riconoscere la rotta.

P.S. a chi ha la pazienza ancora di sorbirsi i miei sbrodoli, seppur una riga sì e magari tre no, AUGURI.

P.S bis: il duemilasedici trattasi di anno bisestile, cioé quella volta che ogni quattro anni perfino io.

Hinn dumà i liber

Ho risolto dove metterli, almeno fino a gennaio, quelli che non sapevo più dove mettere.
Secondo me casca. Casca prima di Natale, casca pure male se la gatta decidesse di spingere lo sguardo più in là della sola ciotola.
Niente di originale, l’ho visto e copiato da qualche foto su Instagram però ierisera Bromur a cena con l’amico Nicechedice ha sorriso “questa è una bella idea”, prima di assaggiare il mio dessert al caco, che era pure un’altra bella idea.

Eccolo, alberello di natale modello duemila quindici roceresale.

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Hinn dumà i liber chi resten liber anca quand hinn legaa

Ogni anno la stessa storia

Sto impacchettando il regalo per Silvestro. I biscotti son pronti da ierisera. La confezione  mi metterà alla prova, è grande, io con carta e forbici son imbranata come quando alle elementari la maestra diceva beh, lascia stare, roceresalina, leggi e basta, te. La confezione è grande, il regalo lo abbiam pensato in due, io e Namica. Io e Namica che si è gentilmente invitato Silvestro ad organizzarsela da solo la festa, stavolta. Certo, la dritta per dove andare a cena son finita a mettercela io. Ci sarà una nota teutonica.

Nel biglietto che accompagnerà il regalo, insieme anche ad un libro in tema, ci sarà scritto, se entro le otto riuscirò a finire di impacchettare quel santantuono di regalo che il commesso mi guardava impietosito mentre uscivo dal negozio, e mi metterò a scriverlo sto biglietto, ecco ci scrivo

“Con gli anni, ancora, dirsi spesso che pizza che siamo, come pane quotidiano”

Ma son passata a fare gli auguri anche a delle blogger speciali

A Pendolante

e anche a lei e leiovunque siano là fuori dalla blogosfera.

Per loro un biscotto!

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Tutto il giorno sto con una scimmietta e un cavallo bianco

Tra quelli che poi ieri han scelto il telefono per farmi gli auguri, e devo dire che c’è stata questa carezzevole inversione di tendenza per cui no feisbuc, no solo uazzapp ma tantissimi che dicono “che diamine, la voce” tra cui quelli splendidi che proprio non ti aspettavi quanto bene, allora se sta inversione di tendenza fosse un must un trend, dai va bene e tra questi a un certo punto mi sembra di riconoscere il numero della filiale della mia banca. Mia in senso improprio, eh. E mi dico “carini vah la banca che carini pure loro mi dicono magari non solo auguri ma un regalo, che so, un mese gratis di servizi” e invece no, il compassato impiegato dice “son pronte le sterline”
Già, son pronte le sterline.

Che io da mesi la mattina ascolto in streaming una radio londinese di notizie, giusto per avere nell’orecchia i barbarismi e due giorni fa sta radio diceva “dentist” e “minnesota”. Ora, va bene che io quando ho imparato l’inglese, semmai sia davvero successo, due delle prime parole eran proprio “minnesota” e “dentist” e sto blog ne fa fede, ma mi son detta tre cose mentre ascoltavo, 1) che sono scema 2) che non capisco l’inglese 3) che c’ho un’ossessione. Fatte salve tutte e tre che son vere, era vero pure che dicevano “dentist” e “minnesota” e poi anche “lion” ho capito e che non dicevano al mio segno zodiacale. Meno male che c’è feisbuk quindi, quando non in inglese, ho capito tutta la storia. Del cacciatore e degli articoli in cui tutti ora cacciano e vogliono linciare e sfanculare un dentista del minnesota. 
Ehh, ci siete arrivati tardi, ma join the club. 

Certo, quello che ho in mente io al limite era un cacciatore di sgnappera e non ancora a pagamento, però, poarell.

Ma quel telefilm datato quasi quanto chi vi scrive, con l’orfanella petulante e lentigginosa, con quella luce a picco, pieno di pirati, bambini soli, a voi non inquietava? Brrrrrrr, a me sì.
La gatta, gatta semianaffettiva sostenuta e pure nu poc zoccola ieri notte ringhia da dietro le persiane, si fa aprire, salta sul letto, si aggancia alla coscia e un minuto esatto la fine dell’impasto al copriletto sento tic, tichetic, tichetichetac e arriva la grandine e il diluvio universale. Beati quelli che capiscono cosa sta succedendo con almeno un minuto di anticipo. 
Da villa Villacolle è tutto. Baci.

La regola dei frigoriferi e degli undici giugno 

Stamattina, mentre guidavo per andare a scuola per lavorare gratis ma piacevolmente perché avrei dato due dritte alla mia armata Brancaleone in vista degli Esami di Stato altresì detti di maturità, la mia, che se sopravvivo stavolta alla composizione della commissione sarò matura davvero, mentre tutto questo piccolo scorreva dall’abitacolo e pioveva e c’era il sole e c’era un live di Jeff Bridges, alla radio si diceva della manifestazione.

Lavoratori della Multinazionale americana quella che fa i frigoriferi, quella in cui anche io ho fatto i frigoriferi, controllavo il passaggio corretto del freon con una specie di bacchetta magica, i lavoratori scendevano in piazza in città, l’attraversavano in corteo bloccando il traffico e infatti poi le mie colleghe arrivate a scuola per lavorare gratis si lamentavano di tale corteo.

E io guidavo per andare a lavorare gratis e mi dicevo sto sbagliando tutto, adesso vado avanti e vado in corteo con loro. E dico loro chi sono, un’insegnante che domani le si chiede di votare su un aspetto di una legge che ancora legge non è, e dico loro che stiamo sbagliando tutti, a non attraversare le città insieme, io con voi, voi magari con gli altri e gli altri tutti con noi.

Forse tutto sto pippone perché ierisera era l’undici giugno, che l’undici giugno a casa mia è il compleanno della cara mamma Little Party, e che è stato forte compleannizzarla dopo aver pensato per parecchio che i compleanni, si sa, possono smettere seppur con preavviso, e l’undici giugno è il giorno in cui io me la sono vista brutta un santo paio di volte, scrutini non permettendo e l’undici giugno era ierisera e non ci è successo niente che vedere il film su Berlinguer. 

Berlinguer, ho chiesto ai Comeback chi è, chi era. Quello che non ha smesso di parlare fino all’ultimo minuto di fiato e di volontà. E se è vero per me che il calcio ha smesso di essere interessante dopo il maggio dell’Heysel, ierisera mi son chiesta come ho fatto a pensarmi comunista da giovane, che non c’era più da un pezzo la stagione Berlinguer.

Checcretina.

Ed altri miliardi di cose che qui non ho scritto, ho vissuto, brutte talune e sempre vitali, tutte inserite in quell’impegno quotidiano che è l’esercizio di una certa felicità.

Mi siete mancati. Ciao.

Valdossola

Non ho fatto in tempo a conoscere bene i miei nonni tanto da poterci parlare a lungo. Vivevo lontana ed ero piccina, quando sei piccina difficilmente in autonomia vai e chiedi al nonno com’era la guerra.

Mio nonno paterno per chi me lo ha definito era un “fascistone” e anche un “comunistone”. Segno che, da qualche parte, di confusione ce n’era parecchia. Me lo ricordo vecchio e malandato, sulla sedia a rotelle, cantarmi canzoni di campi, di giugno e di mietitura. 

Mio nonno materno aveva il soprannome di “‘u balilla”. Può bastare. Però fu lui a dirmi di aver combattuto in Grecia e di avere visto il mare, prendendo in giro sua moglie, mia nonna, che si vantava di voler morire dove nata. Anche se poi ogni tanto sospirava “chissà cum’è stu mmaree andò sciate”. 

Ora mi pento di non conoscere, di essere simile a chi di resistenza sa solo quello che sta scritto nei libri o che fan vedere alla tivù: nei libri la resistenza potrà cambiare, in tivù è già uno spettacolo coi tempi della commozione e del divertimento segnati in palinsesto. 

Poi ho preso a prestito, e così si fa, le storie dei territori presso cui vivo, le storie lombarde e piemontesi, spesso in mezzo, linea il Ticino.

Storie di un territorio alla ribalta sui giornali per feste di compleanno anticostituzionali, però permesse. Di un territorio dove puoi avere un amico il cui padre, fascista, è stato portato via dagli “altri”, i rossi, e che ferma la Storia dell’Italia alla storia di suo padre. 

Ogni anno che la storia si allontana da questo territorio, mi dico, da insegnante, devo fare di più.


Valdossola

16 ottobre 1944


E il tuo fucile sopra l’erba del pascolo.

Qui siamo giunti
siamo gli ultimi noi
questo silenzio che cosa.

Verranno ora
verranno

E il tuo fucile nell’acqua della fontana.

Ottobre vento amaro
la nuvola è sul monte
chi parlerà per noi.

Verranno ora
verranno.

Inverno ultimo anno
le mani cieche la fronte
e nessun grido più.

E il tuo fucile sotto la pietra di neve.

Verranno ora
verranno.

(Franco Fortini, da Foglio di Via) 


So far so close

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Così lontano, così ticino.
(Pellicola di venti chilometri con caduta di stile e di bici nella boscaglia.  Mai seguire regista che dice “adesso facciamo una pausa, sei stanca?” e ti si impigliano i pantaloni nel pedale e splaf).

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Un tuffo nel passato
(Pellicola in cui c’è una tizia già vista nei film tristi di Rohmer che al primo sole s’ammala della nostalgia dei tuffi a due, praticamente un’oca. Poi fa l’aperitivo sul lungo fiume freddo, incontra due ragazzi giovani che l’avvisano di star pronta alle evenienze e ricordano di quando era bello recitare insieme per John Belushi)

Ho fatto una pasquetta che era un cinema!

Cita un libro – #ioleggoperché con auguri infiniti

Comunque la si voglia vedere, questa domenica di festa, resurrezione, rinascita, passaggio, un popolo verso la libertà (magari, e magari non un solo popolo), un uomo e basta col suo sepolcro vuoto alle spalle, non so.
Faccio gli auguri ai miei amici o solo compagni di avventura scrittura, amici hereticissimi e non.

Il tema assegnato da EFFE e dal suo gonnellino, vincitrice del gioco con cui caracolliamo felicemente verso il 23 aprile di #ioleggoperché è nientemeno che l’infinito.

Un tema che mi vede spesso uomo del Seicento, essere una gamba del compasso, per non allontanarsi mai.

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Oppure essere Roberto de La Grive, e scoprire il mondo nuovo.
Al gioco, mi si perdoni il doppione, partecipo con l’avventuriero, naufrago che non sa nuotare, alle prese con un gesuita, personaggio di un romanzo anch’esso tanto infinito.

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