Guidando nella sera già oscura, che scende all’equinozio, pensieri quieti, spazi di introspezione. La sera in cui chissà quanti bambini, piccoli, dormiranno leggermente agitati, per andare incontro a quella cosa nuova che tutti gli hanno chiamato addosso scuola.
Anche PonciPonci sarà tra loro, Ponci che ha visto il grembiule e ha detto “io quel coso non me lo metto o me lo metto per andare a pescare”.
Silenzio, da sola, un’emozione presa a prestito la mia.
Non mi dimentico di me, mi è stato chiesto se talvolta mi sento sola, da sola. No. La mia paura, al limite, per indole, è quella di perdere di tenerezza, spiegavo a Namica, giorni fa, che a mancarmi è solo l’esercizio della tenerezza.
Nella notte prima del primo giorno di scuola, per i bimbi della parte salva del mondo, e per me.
Silenzio e la canzone che spesso dimentico essere per me la scoperta della tenerezza.
Mi riaddormenterò e ricomincerò a sognare.
Succede che tutto sembri sgonfiarsi loffio come una bolla fatta col chewing-gum, succede che alla tivù a giugno diano vecchi film e tu ne hai mancato uno, del 1973, e decidi di vederlo proprio adesso, convinta che sarà un classicone, un riempitivo.
E ti trovi a vedere invece un pezzo di te. Proprio tuo, che ci avevano inventato prima di noi, io molto Cathy tu quasi Hubbell.
Ma quanto faccia poi bene piangere con un film, quanto, che meraviglia.
Entra nella top-ten dei miei film della vita. O è un capolavoro o sto semplicemente davvero invecchiando.
Si sta sfilacciando.
Il blog, il bisogno di narrare.
Uno dei matrimoni che mai avrei pensato fragile. Ma che ne so io, forse lo sono per definizione.
Si sfilacciano un po’ le cose, penso a colazione, girando il miele nello yogurt e l’antibiotico, pure.
L’avete mai sentita quella che la colazione è il pasto più importante della giornata?
O avete una colazione indimenticabile? Io sì. Di cui restano tracce sfilacciate e bellissime, nella memoria.
Quando uscii dalla tenda di quell’incredibile campeggio in cui le francesine si snudavano i tedeschi si ubriacavano e tutti e dico tutti tende teen ager e motorini facevano notte a ballare con la musica a palla. Quando uscii dalla tenda di prima mattina, nel silenzio assoluto delle francesine nude, dei tedeschi che smaltivano la sbornia e andai a colazione.
Un locale disadorno, un self service, l’abusato yogurt denso col miele, io da sola col ragazzo della colazione, il mare di quella spiaggia nera, famosa, e una musica solenne.
Solenne uguale a quel silenzio e alla beata solitudo di cui evidentemente facevo esercizio già allora. Fu un attimo chiedere al ragazzo della colazione che musica fosse, lui a scrivermi il nome su un biglietto che sarebbe entrato in un negozio di dischi ad Atene per uscirne una musicassetta. Secondo me ce l’ho ancora. E la musicassetta, e il bigliettino, pure.
La mia prima colazione indimenticabile, la seconda fu un’altra ma quasi non me la ricordo più.
Era il 1993 e sì, facevo parte degli italiani partiti tutti di corsa tutti quanti per il Mess, per le isole greche. Spostati dal film di Salvatores.
Che poté a lungo e più di qualsiasi spottone turistico a venire di cupole blu, casine blu.
Che l’arte muove di più, messaggio ottimistico della colazione.
Come quando mi è stato chiesto “come facciamo a far venire gente al Durocome” e ho sentito spottoni turistici, quasi.
Quando basterebbe l’arte. O insegnare ad arte.
L’ho scoperta due mesi fa, la versione solo “letteraria” di trivial pursuit. Regole del gioco invariate, con la pedina cerchio da riempire di triangolini colorati ad ogni cosiddetta laurea. Domande di letteratura italiana, letteratura straniera, sul genere giallo, su opera e musica, su cinema, su lettere classiche.
Ecco, lettere classiche. La prima partita natalizia con il gruppo ristretto dei Comeback che si avviano ad essere gli affezionati. Una figura di cacca (la mia) appositamente registrata da Ventodi(sup)ponente che vado a riguardare quando ho forte desiderio di ridere di me. Lettere classiche, ne azzeccassi una.
Seconda partita, ierisera, le diamo la rivincita, prof.
Ventodi(sup)ponente non c’era, impegnato nello studio di un esame. Ma gli altri tre sì, stavolta ha vinto giustamente, prof. Lei sa certe cose che non si capisce come fa a saperle (?) di tutti i generi tranne quello che ha studiato lei all’università.
Che la prima volta fosse il caso delle domande casuali più difficili già io lo sapevo che non era così. È che io sbagliai indirizzo di studi, punto e basta. E l’errore mi costò parecchio, in autostima, anni di tristezze, di una milano da fuggire, la amavo solo qualche giorno a primavera quando le giornate si allungavano segnando luce sul rosso di via festa del perdono. Che bella quella via, che peccato non esserci stata felice.
C’è un’altra cosa che ho perso di quegli anni, oltre alle nozioni e agli studi sterili. Le persone, io che faccio amicizia con la facilità di un motivetto sanremese, coi muri, coi passanti. Le persone. Di quei quattro anni diventati sei mi porto nel cuore un paio di nomi, nella vita niente.
Una ragazza che non vado mai a trovare e ne sarà pure dispiaciuta a pieno titolo, dal tempo che ci chiamiamo a vicenda Culodipietra; e mi manca ma forse lei non ci crede più, alle mancanze mai riempite.
Poi, un’altra, donnasorriso il soprannome, che ho lasciato andare da secoli, dall’ultima volta sedute sui gradini del Forum al concerto di Guccini “guarda quante stelle” chissà come sta, chissà che fa.
Non siamo nemmeno più propriamente ragazze.
Quand’ecco che la partita a trivial e la curiosità affettuosa dei Comeback mi fanno pensare oggi che CDP e donnasorriso avrebbero meritato di più da me. E io meriterei di più da me stessa se solo la piantassi di essere non laureata in lettere classiche.
Quand’ecco che a CDP gliel’ho scritto che tutto mi sta a cuore.
Quand’ecco che oggi sfogliando la rivista online di cucina più conosciuta in Italia, mi imbatto in un articolo, in un nome e cognome. Resto sotto choc qualche minuto. Donnasorriso mi sorride da quelle pagine, proprio oggi, senza saperlo.
Le ho scritto, a Donnasorriso. Che qualcosa mi sta a cuore.
Il pensiero è materia. È quasi primavera, le giornate si allungheranno segnando luce sul rosso di via festa del perdono. Che bella quella via, non sarà poi male ricordare di non esserci stata felice.
una mattina di ottobre qualsiasi, colpi di tosse, ricordati lo sciroppo, no, nemmeno, segno che qualche priorità sta già allo sbaraglio, chissà da quanto.
due ore buche, noiose, implacabili, lo saranno meno settimana dopo settimana.
una ragazza da sola in infermeria, sola con due compagne che le tengono il cestino della pattumiera davanti, dove vomita. “ma siete da sole qui?”. Chiamare qualcuno, eviterei di prendermi un altro microbo, che già non mi mollano più.
pensare davanti al volto provato “forse è incinta” e ripensarci sopra “che bello”. Certo, per me. Per una quindicenne, meno. O boh.
O boh, il mio approccio al mondo di questa stagione, quando ottobre dà il meglio di sé nei colori caldi e nelle brezze fredde.
qui a fianco una collega davanti al pc “guarda che cazzo di lavoro mi sono messa a fare oggi”. le dico sì senza nemmeno sapere di che lavoro trattasi, perché tanto prima o poi bisogna farlo un cazzo di lavoro, le dico.
qualcuno entra, cerca l’omino dell’orario (sapete a scuola quei docenti che si occupano dell’orario e che per due mese diventano omini) che non c’è, ieri l’han visto urlare nei corridoi, oggi il tabulato che non piace mai a nessuno è sul tavolo del dirigente. O boh.
quella del cazzo di lavoro dice dell’omino che non c’è, che dovrebbe mollare il colpo.
anche io, spesso, e non sono mica brava. Cado in trappoline da principianti assolute.
vado, chissà, speriamo che la quindicenne stia meglio, vah.
Se guardo in alto sul soffitto l’ultima a chiudere gli occhi è la costellazione del Leone.
Posso ancora ricordare quanta nausea facesse quello stare a testa in su, si perdono i punti cardinali a stare in quella posizione, e attaccare le stelline fluorescenti.
Ancor prima di scegliere un letto, le stelle.
Per farle tremolare è un attimo, bastano Cohen e qualche lacrima tardiva.
Ho conosciuto una persona che sa raccontare una vita con le date al posto giusto, in musica. Praticamente un roceresale al tornasole, solo più solare.
Le persone che sanno raccontare e scandiscono dischi. le ascolterei per ore.
Prima di rituffarmi nel silenzio, nei dischi delle cose perse, in queste cazzo di stelle di carta che non si staccano più.
Assente dagli schermi, mi sono sfilacciata poco poeticamente in tempo tra scartoffie, quelle che i colleghi sanno e anche quelle che i colleghi non sanno.
Mi sono sfilacciata anche alla cena coi Latintristi e l’ultimo sabato del loro liceo (il loro, roceré, non il tuo, lo capisci?) che quasi non passavo a salutarli tanto poi vi vedo, il diciannove, esce Pirandello, temo. Talmente sfilacciata che sto ancora leggendo la dedica su un libro, guardando le foto di chi l’ha voluta tenendomi in braccio. E in sala docenti che se vedo piangere la collega di fisica piango anche io. La campanella era suonata, l’orologio staccato dal muro (gli arredi, pure gli arredi se li portano i docenti da casa) e quello che con te, per vie traverse, s’è fatto cinque anni davanti a tutti dice che si ricorda com’eri vestita il primo giorno, e che dissi, come presentazione “guardate bene il vostro compagno di banco perché l’anno prossimo non ci sarà più”.
Esco dai corridoi con quell’idea che dopo i Latintristi, ora posso davvero cambiare lavoro. Senza di loro senso non ha. Dura mezz’ora la sensazione, che sui tabulati dei Comeback, lacrime e sangue, letture estive, saranno loro quelli di dopo.
Domani finisco lo scrutinio e prendo un treno che porta a ciottoli levigati. Lo faccio di straforo, sbaglio ma ci sono errori necessari.
Ponci mi spiega di una “pecca ffortunata che il galleggiante, zia, tirava dotto e io di trota ne ho preda una tola, perché l’altra di è dlamata ma in quel laghetto, zia, ci dono anche i lucci e i pettici che mamma fa il ridotto coi pessici, zia” A Ponci mancano solo le esse ma ha una buona presa e possesso del linguaggio specifico della disciplina. A me non manca nulla.
La commissione sulla carta sembra quella che farà un buon lavoro, un sabato di otto giorni fa che sembran mesi sono andata a dare il benritorno a una ragazza che tornava dalla città gemella, ci tornava con un cognome gemello, con un incorcio di sguardi sulla strada, non era un sabato qualunque, non era un sabato italiano. Ma il peggio sembra essere passato.
Infatti nella casella di posta elettronica trovo questo “ATTENTION! The travel authorization submitted on July 6, 2011 via ESTA will expire within the next 30 days. It is not possible to extend or renew a current ESTA. You will need to apply for a new ESTA. Please reapply at https://esta.cbp.dhs.gov if travel to the United States is intended in the near future. If there are 30 or more days left on the old authorization you will receive a warning message during the application and be asked if you wish to proceed.”
Quando ti scade l’ESTA, puoi estartene qui, Esta tié.
Insomma quasi quasi quando non scrivo vivo e metto della parole adeguate alle cose che poi somigliano di più all’amore che fa sagge le donne, perfino me. Tutto quello che ho, mentre lancio un ciottolo levigato a mare, per tutti quelli che incrocio nel male e nel bene. La seconda che hai detto.
Tre giorni di stacco, la fine settimana del Carnevale Ambrosiano, quello che lo devi spiegare a molti che cos’è. Bom, pare che Sant’Ambrogio arrivasse in ritardo a qualche festa, come me. A certe feste non ci arrivo proprio. Che io il Carnevale l’ho sempre amato, da studente era facile, fine degli esami, prendi e parti, venezia per esempio, Bellinzona anche, anche casa, dai giorni della merla in poi studiavo il cosa mettermi, compravo stoffe lucide, pensavo, a testimonio resta la carrellata di fotografie dai quattro anni ai trentanove. Damine, stagioni, topoline, draculine, fragoline, pulcinelle, perfino da scatola un anno. E ho tutto in una scatola, infatti. Da docente il carnevale ambrosiano è un po’ scocciante: hai ferie quando tutto è finito ovunque. Ho Basilea e Colonia irrealizzate, Rio de Janeiro ma quello è solo un sogno.
No, non è del carnevale che non saprei più fare a meno, perché quest’anno la scatola costumi è rimasta proprio chiusa, “la metamorfica strega soffre d’altra inquisizione”.
È di prendere un treno e sentirsi chiamare “prooof, prof roceresale?” da una ragazza di tanto tempo fa, che ci tiene a riconoscerti, a parlarti, te la ricordi che non parlava mai, non pare lei, uscita dal bozzolo dell’adolescenza, mi dice sì è vero, finalmente sono la vera me.
È di tornare a casa, aprire la casella di posta elettronica e trovare il messaggio di un alunno esaminando da me presidente che mi scrive dodecasillabi mettendomeli al vaglio; il messaggio di un’alunna mia solo per un anno, l’unica che dallo sguardo pativa l’abbandono in quinta (non da me voluto, per inciso) che chiede se ho del tempo, per lei, che a scuola non mi incrocia, un consiglio, altrimenti fa niente.
È di rispondere subito, di dirle certo, e darle il cellulare e il contatto skype, forse sbagliando, forse non si fa.
È di questo che non saprei più fare a meno; a volte lo so, è poco, non mi fa completa, non mi fa del tutto donna. Però è quello che ho saputo fare. Per molto, me lo farò bastare.
Se avessi uno scanner, bontàvvostra, posterei i miei travestimenti di carnevale. Tutti. Stagione 1976-2012. Bontammia che non ce l’ho, lo scanner.
Il narratore onnisciente mi lascia sola spesso, si nasconde la pagina dopo.
Così succede come fuori che di sabato c’è favonio e io traghetto non sottocoperta respirando luce e febbraio, forse quello alto era capitan findus sulla sponda di là ma poi forse no, chissà se lo riconosco a capitan findus, dicono che quando il capitano viene il campanello suonerà; domenica c’è stellata e tutti dicono domani nevica, ma figurati, poi ti alzi è lunedì alle 7.00 dici vedi? ma quale neve, vai a fare la pipì e alle 7.20 e dici oh la neve, e mercoledì di nuovo luce e sole; nel frattempo sanremo che non vedo, il papa si dimette, nel frattempo 10 politici candidati alla regione rispondono alle domande dei professori della provincia e nel frattempo scopri che dicono a noi in che condizioni stiamo, e a destra dicono se le tasse le lasciamo qui alla nostra gente investiamo sulla scuola e a sinistra dicono compriamo dei caccia in meno e investiamo nella scuola.
Nel frattempo di cosa?
Il narratore a febbraio mi mette i ferri per tricottare in mano e io tricotto con un nove nella destra e con un 6 e mezzo a sinistra e non capisco perché il tubolare sfalsi le misure, poi capisco, rido, disfo, ricomincio.
Il narratore mi fa chiedere mare o montagna? La voglia di ciaspolare si incarta con quella di sbirciare l’orizzonte e leggere al mare d’inverno, un concetto che gennara, sai considera. Poi, scommetti, finisco in città.
Il narratore onnisciente lo sa, poteva dirmelo che la prima scena dell’ultimo film di Altman è ambientata in quell’autobus fermo per farci colazione nella città di un grande scrittore, un grande fumettista, un grande musicista funky. Quella. Se il narratore onnisciente lo sa, lo dicesse a brezny dell’oroscopo di non dirmi che se non ho un amante per performance erotiche pressoché sacre (o non so l’inglese?) mi basta immaginarlo.
Il narratore onnisciente è giù di trama. Come una foto dal vetro.
Il correttore di bozze, alla fine, abbia cura di eliminare l’abbondanza di aggettivi “giusto” “sbagliato” di cui infarcisco inutilmente febbraio. And my secret life.