fino all’osso

di Ponci Ponci adesso che è un ometto, che fa le elementari, che non ha voglia di leggere anche se sta amando le storie di Vivian Lamarque mio dono natalizio, di Ponci Ponci non scrivo quasi più, sarà che da mocciosi son meglio ispiratori.

Oggi però Ponci, piccolo ciclista agonista, mi raccontava di esser contento della nuova bicicletta perché con quella vecchia gli si rompeva il pisello (cit.) e ci ha tenuto proprio a precisarlo, zia, ogni volta che scendevo mi rompevo il pisello. Silenzio di tutti a pranzo.

Poi zia che è serafica, assai, lo ha guardato e “tranquillo, Ponci, non si rompe, non è un osso”. La perplessità degli astanti cresceva come al cinema.

“ma zia, – e qui sapeva la serafica zia, se lo sentiva dove sarebbe andato a parare – se non è un osso perché io una volta in bagno l’ho trovato in alto che guardava all’insù”?

Zia che è molto serafica, assai assai, ha riposto e ora si aspetta di venire a sapere che un settenne di logica ferrea imparentato con lei renda edotti parenti compagni e maestre tutte su corpi cavernosi e afflussi di sangue.

Ponci termina l’argomento con un “insomma il pisello cosa fa, può guardare in alto, guarda le stelle?”; e zia serafica, assai assai assai, fino all’osso, gli ha risposto pressapoco un “quando è in vena di romanticherie, sì, ma tranquillo che non succede spesso”

 

Il motto del 2017 è quindi opera di Ponci e sta a mezzo tra un viviamocela serafica e un fino all’osso.

Il vestito

Ci sono storie che si fanno raccontare, come questa.

Iniziata tanti anni fa, nel 2002, quando frequentavo un forum, in epoca pre-social, un forum di precari in cui imparavo qualche legge, qualche diritto, e non avevo la connessione a casa. Un’esperienza finita in fretta con soli due nomi conservati nella memoria per sbaglio, Caterina e Patrizia.

Non so se tra qualcuno che ancora mi legge c’è chi coi nomi ci fa legami indimenticati; io sì, come scordo i visi così trattengo i nomi, spesso per sempre.

Poi la vita macina chilometri, il precariato divenne anche un ricordo, amen, e un forum adesso fa molto preistoria.

Nel 2011, ten years later, andavo a spasso tra le scuole della provincia a fare formazione quando un pomeriggio mi si avvicina una collega e mi chiede se fossi la stessa roceresale del forum dei precari perché a vedere il mio nome si erano consultate lei, la collega sconosciuta, con due amiche, Caterina e Patrizia. Sono io, non sono più precaria da tempo, anche loro , ti possiamo cercare su facebook, certo. E fu così che ebbe un volto, soprattutto Caterina. Qualche scambio che Facebook alla fine è quello, un like, una canzone, un proverbio in dialetto per ridere di noi.

Fino a un barocco pomeriggio di novembre, a una foto di un vestito e cappotto e scarpe e vanità. Caterina dice “famm veré stu vestit” l’ho già tolto Caterì, “quant sei antipatica roceresale, e voglio vedere il vestito”. Un vestito che dice mettiti su skype ed è la prima volta dal 2011 che un nome diventa anche voce. E diventa in breve il modo con cui la vita mi tesse il film addosso.

Roce, di che anno sei? Cate, sono nata nel settantaeunpaio al Careggi. Ed era la prima volta che ti nominavo la città natale. Roce, sei nata lì? Sì abitavo e lì. Dietro casa tua c’era la vasca coi pesci rossi Mi sembra quasi di ricordarla. Avrai giocato coi miei cugini, hanno l’età tua. C’era Giona biondo con occhi azzurri. Mi sembra qualcosa di familiare, Caterina, sarà suggestione. In che via mi chiede Caterina, in via del Pittore (mentre lei impallidisce) a che numero? (il pallore è quasi svenimento); in quel palazzo stavano i miei zii, e avevano il bar in fondo alla strada mentre lui era pizzicagnolo di qua d’arno. Caterì lasciami chiamare mia madre che il cognome sembra quello che so, poi ti richiamo.

…e insomma Caterina non è voluta star fuori dalla mia vita più volte,abbiamo tirato fuori le foto coi cugini il giorno dopo a casa, la zia del bar mi badava quando quella ventenne di mia mamma andava a lavorare e Caterina può anche avermi tenuta in braccio, da piccola.

Poi abbiamo smesso di avere il magone e abbiamo deciso di incontrarci, all’epifania, come si addice a quelle che ci tengono al vestito.

Muta

Ci sono parole che mi conquistano, mi prendono, spesso con forza, giocano con me, non se ne vanno mai. Le parole.

Quanto ci vuole per esempio per completare una muta?

A quali temperature risalendo, è rinunciabile la muta?

E si può festeggiare un compleanno restando muta?

 

So rispondere inevitabilmente solo alla terza domanda.

Eri diventata la mia migliore lettrice, il messaggio di posta elettronica più caldo, cui rispondere fu sempre più difficile fino ai giorni della nessuna risposta. Oggi che non ci sei più, il dono, come capita, di compleanno, muta me lo fai tu. Lasciandomi novembre che poi per uno strano gioco di parole che non han tradito mai, è rimasto più che no, sìvembre.

 

Ciao, Esperanza

Mezzaluna

Guidando nella sera già oscura, che scende all’equinozio, pensieri quieti, spazi di introspezione. La sera in cui chissà quanti bambini, piccoli, dormiranno leggermente agitati, per andare incontro a quella cosa nuova che tutti gli hanno chiamato addosso scuola.
Anche PonciPonci sarà tra loro, Ponci che ha visto il grembiule e ha detto “io quel coso non me lo metto o me lo metto per andare a pescare”.
Silenzio, da sola, un’emozione presa a prestito la mia.

Non mi dimentico di me, mi è stato chiesto se talvolta mi sento sola, da sola. No. La mia paura, al limite, per indole, è quella di perdere di tenerezza, spiegavo a Namica, giorni fa, che a mancarmi è solo l’esercizio della tenerezza.

Nella notte prima del primo giorno di scuola, per i bimbi della parte salva del mondo, e per me.
Silenzio e la canzone che spesso dimentico essere per me la scoperta della tenerezza.
Mi riaddormenterò e ricomincerò a sognare.

Di jeans, di radio, di essere zotica.

Febbraio è quel mese in cui mi trovo a pranzare ancora fuori, al solito lago; è quel mese in cui le canzoni alla radio sono nuove, sono quelle di Sanremo, che io alla radio le sento senza saperle, senza averle viste e spesso sento e scopro quale vinse che di solito è già aprile.
Che la radio a febbraio fa lo sciàffol, è nuova e dissociata, prima ti spara una delle abusate e rassicuranti melodie da rima amore&cuore o maipiù&poitu invece poi mentre sei lì a pranzo all’aperto in febbraio la radio ti spara anche l’incipit riconoscibilissimo di sunday bloody sunday. I can’t believe(the news today).

Quella sunday bloody sunday che scrissi col pennarello sui jeans, copiando la compagnetta di banco al liceo; forse l’unica stagione breve della mia esistenza in cui ho sentito forte l’esigenza di copiare qualcuno, amavo la sua casa, piena di fratelli maschi, degli amici dei fratelli maschi, di musica e musicisti, maschi, fratelli, amici e di libri, tanti libri. Mentre io avevo la casa a litigare con quello zotico del mi’ babbo che i jeans scritti me li proibì subito da portare, figurarsi, come vietate erano bandane, cavigliere ed elenchi di accessorio velleitario; è zotico ancor ora il babbo, figuriamoci nel 1988, l’anno in cui Sanremo poi lo vinse Ranieri, mi pare, e perdere l’amore.
Il babbo, zotico ebbene e capace di presenze infinite, di portarci di qua, portarci di là, esserci sempre, di proteggerci dal male, possibilmente e amen quando non.
Ne passarono di maschi, di amici e perfino tanti libri; è raro che io ora indossi un jeans che non sia colore omogeneo, di buon taglio, e che non prenda in giro l’alunna col denim stracciato alle ginocchia, zotici come sono, i jeans, e pure un poco io, sicuro, ereditaria.

E insomma dopo sunday bloody sunday febbraio si è riincamminato guidando, dentro una canzone festivaliera azzurra, che ci ho sentito il mare, scontato è, zotico, ma serve ad andare. Andiamo.

Insubre e salubre

In poche settimane l’attesa di un tempo per riposare e lavorare, insieme, che è già una contraddizione di per sé, ma fattibile, fatta di compiti, penne rosse, tisane, finestre, cose color arancio.

Poi succede qualcosa (di bello e inaspettato, e va bene) e niente riposo e quasi niente lavoro; il quasi è solo compiti e penna rossa, fattibile, fatto senza tisane, finestre, cose color meno calma.

Da quando lei non c’è più, vedere arrivare gli altri e parlarsi è semplicemente più importante.

Il resto è un vivere insubre e poco più che salubre, attraversare confini, dichiarare dogane, ascoltare storie altrui.

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Veni vidi Fiji

 

È partito il 30 ottobre di mattina da Los Angeles

Il 3 novembre di mattina era a Singapore
Il 3 novembre sera era alle isole Fiji.
Io nemmanco saprei bene dove si trovino le isole Fiji, negli anni ottanta credo si trovassero sulle etichette palmate dei bagnischiuma. Però a saperlo ci andavo io alle isole Fiji direttamente a prenderla l’ordinazione.

Il 3 novembre alle Fiji. Dall’aeroporto isolano tocca terra di Milano, sto pacco, l’8 di novembre, data dopo la quale di sto pacco nulla si sape. Quelle delle sparizioni non erano le fiji però, ma le bermuda, credo.

A questo punto il pacco che a Milano sparisce diventa oggetto di conversazione familiare. Sorella di roceresale che lavora oltremodo nella logistica chiede cosa ci sia nel pacchetto, ha l’aria di essere un problema doganale, dice. Alla risposta di cosa contenga, dice solo “cretina di sorella col cervello al diuti fri, spera non ti facciano pagare millemila tasse per averlo”. (Le conversazioni familiari son sempre belle quando ci si vuol bene).

Eravamo quindi all’8 novembre. A un mio messaggio mail all’azienda (inglese, ndr) azienda, come la sapesse lunga, risponde laconicamente “non si preoccupi, deve solo aspettare che le Poste Italiane consegnino il suo pacchetto”
Infatti il pacco riappare sui tracciati delle poste italiane il 17 novembre; per cui riassumendo in tre giorni e mezzo si trasvola California, Singapore, Fiji.

Poi arriva in Italia e segue tale tracciato, veritiero, lo giuro:

17-11-2015 9:00:00 in lavorazione presso Centro Scambi Internazionale – Centro Scambi Internazionale

17-11-2015 10:06:29 avvio della spedizione – MI

18-11-2015 04:46:00 in lavorazione presso Centro Scambi Internazionale – Centro Scambi Internazionale

18-11-2015 08:11:29 in lavorazione presso il Centro Operativo Postale – MI

18-11-2015 12:08:35 in lavorazione presso Centro Scambi Internazionale – Centro Scambi Internazionale – Centro Scambi Internazionale

20-11-2015 5:30:24 in lavorazione presso il Centro Operativo Postale – Peschiera Borromeo

22-11-2015 23:57:40 in lavorazione presso il Centro Operativo Postale – MI

23-11-2015 14:17:56 in consegna – XXXXXX (verde provincia)

23-11-2015 08:11:29 in lavorazione presso il Centro Operativo Postale – Xxxxxxx

24-11-2015 11:01:16 giacenza presso il centro operativo Postale- centro operativo postale di Viadellago

24-11-2015 11:01:55 in lavorazione presso il Centro Operativo Postale di Viadellago

Mi presento in posta a viadellago e dico “mi chiamo roceresale, son qui per prendere il pacchetto” “mmmhh, come ha detto che si chiama?sicura?ha ricevuto avviso di giacenza? Sicura?non è che per caso ci sarà qualcosa da pagare?(Cazzarola, diglielo poi a sorella logistica)… Da dove viene il pacco? Ah sì, dalle Fiji…

24-11-2015 13:21:52 consegnata – ufficio postale di Viadellago

Chi viene alle Fiji?

Valdossola

Non ho fatto in tempo a conoscere bene i miei nonni tanto da poterci parlare a lungo. Vivevo lontana ed ero piccina, quando sei piccina difficilmente in autonomia vai e chiedi al nonno com’era la guerra.

Mio nonno paterno per chi me lo ha definito era un “fascistone” e anche un “comunistone”. Segno che, da qualche parte, di confusione ce n’era parecchia. Me lo ricordo vecchio e malandato, sulla sedia a rotelle, cantarmi canzoni di campi, di giugno e di mietitura. 

Mio nonno materno aveva il soprannome di “‘u balilla”. Può bastare. Però fu lui a dirmi di aver combattuto in Grecia e di avere visto il mare, prendendo in giro sua moglie, mia nonna, che si vantava di voler morire dove nata. Anche se poi ogni tanto sospirava “chissà cum’è stu mmaree andò sciate”. 

Ora mi pento di non conoscere, di essere simile a chi di resistenza sa solo quello che sta scritto nei libri o che fan vedere alla tivù: nei libri la resistenza potrà cambiare, in tivù è già uno spettacolo coi tempi della commozione e del divertimento segnati in palinsesto. 

Poi ho preso a prestito, e così si fa, le storie dei territori presso cui vivo, le storie lombarde e piemontesi, spesso in mezzo, linea il Ticino.

Storie di un territorio alla ribalta sui giornali per feste di compleanno anticostituzionali, però permesse. Di un territorio dove puoi avere un amico il cui padre, fascista, è stato portato via dagli “altri”, i rossi, e che ferma la Storia dell’Italia alla storia di suo padre. 

Ogni anno che la storia si allontana da questo territorio, mi dico, da insegnante, devo fare di più.


Valdossola

16 ottobre 1944


E il tuo fucile sopra l’erba del pascolo.

Qui siamo giunti
siamo gli ultimi noi
questo silenzio che cosa.

Verranno ora
verranno

E il tuo fucile nell’acqua della fontana.

Ottobre vento amaro
la nuvola è sul monte
chi parlerà per noi.

Verranno ora
verranno.

Inverno ultimo anno
le mani cieche la fronte
e nessun grido più.

E il tuo fucile sotto la pietra di neve.

Verranno ora
verranno.

(Franco Fortini, da Foglio di Via) 


E forse è proprio per questo che hanno inventato la radio

Babbo ci partecipava ai quiz calcistici sulle radio locali e vinceva premi che eran tutti per me. Il primo fidanzatino ci faceva un programma di dediche sulle radio locali fino a quell’ultima volta quando la dedica fu per un nome che non era più il mio. Mamma cantava, stop, lavando i piatti.

Io ascoltavo di notte, mia sorella diceva “spegni sta lagna, mi mette l’ansia sto gezz” e c’era già stata la stagione della grande radio milanese, 101, con la sua programmazione molto black, c’era già stato il dee jay delle grandi narrazioni notturne, Mario Panda.
Mamma cantava, cambiando le parole.

Poi ci fu l’esame a quella facoltà lasciata a metà, storia della radio e Guareschi, il nostro Giovannino Guareschi che dal lager con pochi mezzi di fortuna, che so come se si potesse fare la radio con una scatoletta di tonno, se la costruì la radio caterina.

Cosa venne dopo è una storia così bella che non posso quasi raccontare. Ma sfocia in un matrimonio, sicuro.

Che pure Sanremo, le volte che c’è, per me è ascoltarlo alla radio, non vederlo, che la musica, poc’anche ce ne fosse, si ascolta, non si guarda. Così ierisera uno che solo oggi gugolando ho capito chi fosse cantava una delle canzoni della mia mamma.

Oggi per cui le dico “mamma, ierisera alla radio sentivo una delle tue canzoni, ma quale, mamma, aspetta che te la canto “Io, io mi fermo quiiiiiii, qui dove vivi tuuuuu” e mamma dice “ma tanto io poi mi invento le parole”.

Che se mamma sapesse da quanto tempo aspetto quella nave che passerà, dove arriverà, questo non si sa, sarà come l’arca di noé, il cane il gatto io e te; forse mamma lo sa quando ancora canta sistemando i piatti…

Oggi è il World Radio Day e io che ascolto, lo celebro così.

Featuring mamma, ovviamente, e gli Stadio, nel titolo.

La poesia del formaggio

Un pranzo qualunque, interno più o meno borghese, una pastasciutta al sugo.

Mamma, questo non è parmigiano. No, è grana padano. Io, dice, grattugiato sulla pasta preferisco il grana. Anche da mangiare così.
(Così=a pezzettini). Tuo padre a dire il vero, invece, no, preferisce il pecorino, in entrambi i modi.
Tua sorella, parmigiano grattugiato e grana invece da mangiare così.
Tuo cognato non può nemmeno sentirne l’odore, di nessuno dei tre.

Cinque persone, eh. Pensa al mondo.
Nonna avrebbe detto “chi la vole cotta e cchi la vole crura a stu monn”
Nonna, ah nonna, nonna avrebbe grattato il caso. Lu casoricòtt.

E io? Io, dopo quaranta e uno anni di non sia mai e per carità, infilo cipolla cruda ovunque.
Non è formaggio. Si parlava di formaggio, scema.


…anni fa un tizio che si dilettava di poesia, mi disse dell’esistenza di parole impoetiche e mi fece due esempi. La parola figa e la parola formaggio.