Hinn dumà i liber

Ho risolto dove metterli, almeno fino a gennaio, quelli che non sapevo più dove mettere.
Secondo me casca. Casca prima di Natale, casca pure male se la gatta decidesse di spingere lo sguardo più in là della sola ciotola.
Niente di originale, l’ho visto e copiato da qualche foto su Instagram però ierisera Bromur a cena con l’amico Nicechedice ha sorriso “questa è una bella idea”, prima di assaggiare il mio dessert al caco, che era pure un’altra bella idea.

Eccolo, alberello di natale modello duemila quindici roceresale.

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Hinn dumà i liber chi resten liber anca quand hinn legaa

Un giorno questo bollore ti sarà futile

Doveva prima o poi capitare; mentre il medico di base pronunciava parole come androgeni, testosterone, estrogeni a mancare, non vorrei darle una mazzata finale e io a interromperlo “lei dottore, se lo ricorda il cartone animato Chobin? -oi oi ma com’è carino e dolce Chobin oi oi- che quasi gliela canto al dottore, divento come Chobin, una palla di pelo, insomma.
Che stavamo a 34 gradi e l’ambulatorio era vuoto, vuoto, lì dove di solito se son la terza in lista d’attesa ne esco dopo due ore, vuoto, mi dice “avanti” il dottore e io “ah no adesso per abitudine aspetto qua da sola un po’ fuori, mi son portata pure il libro”.

Doveva prima o poi capitare, androgeni, testosterone, estrogeni a mancare e il vicino di casa, quello col flessibile alle sette del mattino, mi dice ci son 33 gradi, non riesco a lavorare, sia ringraziato e lode agli dei vorrei dire io ma aggiunge “che bella sorpresa, tu sei incinta, auguri”.

No, ho solo la pancia ma mica stai a spiegare androgeni, testosterone, estrogeni a mancare, però prestami il flessibile giusto quei trenta secondi per tranciarti la giugulare e mettere fine a queste estati faticose. Non sono incinta, sono solo grassa. 

Ma sei sicura? Miiiiiiiinchia, sì son sicura. Auguri lo stesso. Vafangul và.

Doveva prima o poi capitare. Stare ad asciugare i capelli sulle scale, in déshabillé e vedersi apparire sulle scale all’improvviso un uomo. Lo hai sognato tante volte, quel rifare le scale a ritroso, che sei cretina ancora a credere che le scale a ritroso c’entrino con l’amare. Senonché l’uomo apparso oggi, sfidando, conoscendolo, un muro di timidezza e riserbo ha la metà dei miei anni meno sei mesi, credo, ed è l’unico uomo non noioso con cui posso conversare per ore. Sulle scale, a 32 gradi. In barba a convenzioni di anagrafe, a etichetta, dopo lo shock di saperlo non così timido da non arrivarmi a casa senza preavviso, l’ardito, e superato lo shock del mio dress code dei 34 gradi, con l’aiuto di acqua e menta con ghiaccio ce ne siamo stati a Londra, a Parigi, a New York nei ricordi, nei progetti, nei libri nei poeti cerchi te. 

Doveva prima o poi capitare. Riscoprire tramite un cinquenne, invece, che mandi da solo a comprare il gelato, guardandolo da lontano, tornare, i quattro gusti diversi di ghiacciolo ricordati, le manine piene di quello sciogliersi appiccicoso “zia mi hai dato un soldino in più”, vederlo lasciare il passo sulle scale a una signora, stupita quanto me e poi dire, solo a me “eh sì bisogna essere cavaliere”. Ma un pomeriggio con un cinqueenne può diventare prova di legami familiari con strascichi irrisolti, stronzaggini varie quando invece ci si potrebbe amare e basta, con meno fatica. 

Doveva capitare, la gatta è alla pensione gatti, la valigia è sul pavimento ma tutto quello che potrei mettervi dentro è appunto anch’esso sul pavimento, la casa sarà sul fiume, da lago a fiume potrà essere facile, ho memorizzato due frasi da dire al telefono all’arrivo, che mi verrà da ridere a dovermi chiamare student.  Una partenza può diventare prova, di ansia, di ipocondria, di prontezza. La terza cosa non l’ho vista, nemmeno lì sul pavimento.

Doveva capitare anche un’estate vera, lunga, possente. Che mi sfinisce, che mi fa difendere.

La verità è che in pentola, ho la sensazione che non giunga a bollore da tanto poi niente di nuovo, che un biglietto aereo non mi cambi più la vita da tempo, che essere benvoluta non basti mai, che aver scoperto di essere capace di desiderare il male altrui sia la scoperta dell’acqua calda, che faccia solo caldo, che un blog di ghiaccio al caldo si sciolga, è giocoforza; che faccia caldo, sì ma che scrivere non faccia invece nulla.

Cita un libro: #ioleggoperché

#ioleggoperché e faccio leggere perché così magari Pà non lo ammazziamo più.

Potrei raccontarvi di un mercoledì sera in cui vento e stelle lagheggiavano e largheggiavano sulla testa della prof e dell’ex alunno, quello che è accorso all’sms “scendi, recital su Pasolini” “arrivo, così ho la scusa per parlare un po’ con lei”. Camminavano di notte, e si sentivano affini.
C’è una lettera luterana tra loro, per sempre.

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In questi momenti, il gioco è necessario.
Ed eccomi, a tema libero, seguendo le regole scritte qua, rimettermi al giudizio di Murasaki, nella partecipazione agli eventi di #ioleggoperché

Ricevere

Due mamme in coda al ricevimento in un’altra classe “Professoressa, la stavamo aspettando, volevamo solo salutarla, abbiamo i figli minori adesso in prima, peccato non riaverla, magari in terza speriamo”
(Intanto penso che in una classe prima ne manca una oggi, manca al conteggio all’improvviso, manca alla vita, manca, maledizione e si leggeva sui visi e nella normalità forzata)

Al ricevimento, il mio. “Professoressa, grazie, Pierino è contentissimo di averle dato una mano col podcasting delle lezioni”
“Professoressa, Gigetto è cresciuto tanto in questi anni, è maturato, adesso mi fa certi discorsi che lo devo spegnere, quasi, e ci chiede di leggere i libri che legge con lei per poterne parlare con noi”
“Professoressa, Ventodi(sup)ponente sta matteggiando, provi a parlargli lei”
Alla fine del ricevimento, la collega, un buonumore ben assestato.
A casa penso “ora scrivo a Ventodi(sup)ponente” e non faccio in tempo a pensarlo che sul canale telematico un messaggio di Ventodi(sup)ponente mi chiede “prof posso parlarle un giorno di questi?” Sì.
E tra gli altri messaggi anche tre dei Latintristi “prof, allora per la nostra prima cena da lei, io (Bromur a nome di tutti) verrei prima ad aiutarla a preparare.
E tra gli altri messaggi i tre palindromi -di altra meravigliosa piramide- anche in una chat divertentissima in cui fissavano la cena edizione di dicembre senza nemmeno consultarmi “prof va bene anche un brunch”.

Auff nemmeno il tempo di stare a grattare il paiolo, qua. 🙂

Che strano mese di sìvembre, denso dentro ai no d’acqua.

La professoressa mo’ mo’ mentre scrive è sdraiata sul divano, ad intermittenza fissa il soffitto un po’ in fissa e vede qualcosa che si muove. Striscia. Sottile bianco. Se è un cagnotto, n’ata vota, devo rifare il giro delle farine e scovare il nuovo covo. O convincere il ragno nell’angolo opposto di andarselo a prendere lui.

Sì malcostume?

Che l’unico giorno di sole pieno me l’ero passato al lago dalle nove del mattino alle ventitré della sera, ed era stato un giorno bellissimo, iniziato dalla colazione nella pasticceria buona buona nella quale Bromur mi promise mi avrebbe offerto il croissant migliore della provincia quando mi avesse incontrato e non fossi stata più la prof. E infatti, meraviglioso Bromur, lui, la colazione, il croissant, il lago, il sole.
Poi il pomeriggio era precipitato in spiaggia tra incontri noti, non noti, telefonate e interviste che andranno anche su programmi radio.
Ma a dirla bene la stimmata cioè lo sbrego che campeggia sul ginocchio destro e non guarisce, eterno segno, è la prova di quando tenti di fare il bagno e ci sono le rocce. Ero lì, scivola piede a destra, sbrega polpaccio a sinistra, quando appare il ragazzo più bello del mondo che si avvicina e mi dice “così non ce la fai, te lo dico per esperienza, in questo punto l’unica è sederti su quel sasso lì piatto e buttarti in mezzo sennò ti fai male”. Io male me l’ero già fatta ma non abbastanza da guardarlo e dire però. Soprattutto quando si è rivestito, ha rimesso sul braccio la fascia profescional dell’aifon che conta quanto corri. E mi ha detto “ciao, buon bagno”. Fanbagno se era carino, il barbettino castano, mentre io lì col costume vecchio dell’anno scorso, quello col volant tipo gonnellino da jenni la tennista dei tempi che furono. A dirmi che mal costume.

La mattina dopo ero in negozio, voglio un costume a fascia un po’ fescion, prova la quarta prova la quinta riprova la quarta, vada per la quinta, mi raccomando controlli la quinta, eh. Bikini rosso smerlettato nel sacchetto, bimba felice, da lì pioggia e diluvio, addio lago, addio barbetta castano.
Nel frattempo sono riuscita a metter la crocetta sbagliata sul modulo giusto e mi son giocata il posto all’istituto durocome. Vabbé, questa è una nota di costume.

Ok. Siamo al costume italiano. Tirem innanz sta storia.

Poi al trentacinquestimo giorno di dacci oggi il temporale quotidiano, per sfinimento si prende l’auto nuova, la si riempie di sediolina, tenda, sdraietta, ombrellone, fornellino, materasso gonfiabile e si va a campeggiare in Francia, mica in albergo dove sei dentro e fuori è solo pioggia e francia. Bensì in campeggio, così fuori è solo sole e francia. Che va bene. Fino a quando mi infilo il costume e dico che strano, sul cartellino c’è scritto quarta. Gò sbajà ancora, maledizione. Non messo. Rimesso nel sacchetto. Scostumata.

Allora si entra in un negozio di costumi francesi, belli belli. E le due madamuaselle “uh la bell puatrin de chi la belle puatrine de là” compro un costume il contrario che adamitico, un po’ musulmanico, un tankini che ora so cos’è un tankini, un coso che così non prendo il sole sui segni, che a sen tropé tutti van con il sen al vent, io fo controtendenza. Che poi infatti la mattina però cambio idea e dico “ma poi a casa o l’anno prossimo se incontro il barbetta castano che ci faccio co sta muta fiorellonata”, torno dalle mademuaselle molto meno gentili del giorno prima, sarà che la cartdecreditt nulavon deja striscié, chiedo il cambio da tankini a bikini ma bien sur rispondono, fingono di controllare la taglia, la vedo bene che c’è, mi dicono “jesuìdesolé” nu lavonvendiù. Non è vero peggnente, putains de madamuaselle, e mi tengo il brutto costume restandoci un po’ mal.
E questo è il costume francese.

Oggi che son tornata da quell’inondazione azzurra di nuovo qua, con 18 gradi son tornata a cambiare il costume italiano. Le dico sciura, controlla ti controlla mi, alla fine abbiam messo nel sacchetto quello sbagliato. La sciura dice impossibol che ne aveva solo due e la quarta l’ha venduta ieri, è sicura. Sciura, il cartellino dice così. Sciura, povera mi guarda. “Lei non ricorda, le ho invertito i cartellini per poter darle la mutanda più piccina”. Che culo. E mi apre la fascetta della taglia della fascia e c’è un numero romano inequivocabile. Una grossa V di vaffanchiù va come sto esaurita.

Urge giornata di sole, se ritrovo il barbetta faccio voto che lo seguo di corsa, in kayak, a nuoto, nel pentatlon, al decatlon. Magari a comprare un buon costume.

I (bi)sogni son desideri

L’ultima settimana è stata una prigionia, compresa la notte del venerdì che alle 1.38 si correggeva l’ultimo tema del penultimo pacco che quasi ci credi a babbino natale, sei te, e ti fai un regalo, glieli consegni prima delle feste.

In realtà amo così tanto il mio lavoro che lo trovo difficile, parecchio, delle volte.

I latintristi andavano e venivano nei corridoi a prendersi il diploma e facevano tappa da me, a lungo, primi esami, soliti sorrisi; non mi mancano più perché son tanto acquisiti che bere il thé con bromur, l’ultimo ad arrivare e a dirmi “sa, mi è sempre sembrata sprecata in quel posto di provincia così di provincia che più provincia di così ci son solo le Murge di Sicilia”.
Bromur tesoro, ridevo con le lacrime, le Murge però mi sa che stanno in Puglia. Bromur con un regalino a forma di libro, son curiosa come un gattaccio di quartiere ma se mi sforzo di fare l’albero, li apro anche a Natale, i doni.

Il mio Natale voluto, ripreso, inventato. Non è più quello del lo aspetto, dove andiamo e della neve vista da finestre di bellissimi alberghi storici e petrosi svizzeri o mericani.
Mi manca, la bella vita che mi facevo fare. Mi manca ma non so se la desidero ancora.
Guardo con ammirazione alle persone che sanno desiderare solo quel che hanno già.
Ma è contraddizione, perché si sa, desiderare è qualcosa che scende dalle stelle, mica roba terra terra. E tu scendi dalle stelle?

Mi manca, la bella vita che mi facevo fare. Mi manca ma non so se la desidero ancora
È il Natale del comprare i pennarelli a Ponci Ponci, il natale del dormire, del leggere, del cercare la neve qualche giorno in montagna con amici, è il Natale del parrozzo che mi viene ogni anno sempre meglio e finalmente so che lo stampo a cupola da purista ce l’avrò ben presto, è il Natale delle lunghe discussioni semiserie con i miei genitori, il Natale del ringraziare tutti i giorni quel bimbo concepito senza sapere, adagiato al freddo, ringraziarlo e chiedergli ancora di salvarci, se poi lo meritiamo. No.

A tutti gli amici, e diciamo così ai “presenti” di blog: presente! un grazie, un abbraccio, auguri.
Agli assenti, che portino o non portino neanche e mai più la giustificazione, auguri uguale.

maturità t’avessi preso prima

Fino a 30 secondi fa questo blog constava di 222 articoli. 222, non mi si può dire che non sia un numero affascinante. Scrivo rompendo un’armonia (chissà che scrivere non sia sempre farlo, però).

Sono appena andati via. Viadellago era un rumore di voci, un fiume di vene fervide, di adolescenti. Sei alla volta che sei sedie ho, sei bicchieri, sei piccoli spazi vitali. Faranno a gruppi, gli altri, che vorranno venire. In ordine, la mia voce per ciascuno di loro: idee e tesine, il titolo, l’idea ultima del trenta di maggio, le commissioni in severo ritardo, st’anno, battute al limite della licenza, un linguaggio informale, di più il loro che non il mio.
L’ordine del disordine.

L’ordine di un cimelio ritrovato, la bic blu della mia maturità, sempre che io l’abbia poi presa una maturità. La mostro loro, prof quanto ha preso di voto di laurea? Pochissimo, forse detengo un record negativo in quella facoltà. Voglio dimenticare, ma ormai non serve più. La bic non scrive più.

L’ordine dell’amore. A luglio sarò orfana dei miei Latintristi. Ragazzi che non lo sanno, e come possono saperlo quanto hanno lenito un dolore e di quale dolore. A luglio li saluto, sì lo so, ce ne saranno altri.
Di Bromur, forse no, anzi lo so, no.
Ragazzi che amo, che se ne vadano con quel pezzettino di amoremio per il mondo, mi han fatto da figli mentre ne perdevo. Son cresciuti bene. Diversi, pensanti. Belli.

In ordine, in senso antiorario, le loro voci, le tesine a posto, fetta di torta, che alla mezzanotte della sera precedente il forno andava, in viadellago, allora una ciambella e voci voci.

Ora restano i grilli, sono appena andati. I grilli che mi ubriacano. Saranno i finissimi sistri d’argento.
Sono felice, davvero.

“e poi magari la smetto e mi lascio
di nuovo amare anche io,
non so se da lui o da chi sarà. prima o poi.
Pensi che ci riuscirò presto? non ne sono
sicurissima però sto meglio
quando la pianto, di sapere
cosa ne so di me”

penna

La pasta del capitano

Il sabato alle 13, per caso.
Il sabato dei corridoi vuoti. Ne incontri dei Latintristi un due o tre in uscita, accenni un saluto timido, di sponda, li hai già visti in classe, a volte hai l’impressione di esserci ed entrare nelle loro vite, fin troppo, tra un seneca e una battuta e queste imminenti elezioni.
Passi nel corridoio, scarti di lato per entrare in sala docenti, il saluto è un gesto veloce con la manina.
Senti la voce di Bromur (sempre il caro vecchio Bromur) che ti dice ” oh capitano, mio capitano” lasciandoti capire tante cose.
In un secondo ti passa tutto il mondo, tutto il film che ritengo sopravvalutato, ma poi no, anche tu la senti, qualche pagina stracciata di poeti cortigiani; in un secondo passa il corridoio e tu rispondi in un secondo ” Càpitano, Bromur, a volte solo càpitano”.

Ed è solo questione di accento.

che schiava di Roma…

qui nella verde provincia, tutto bene. sì, l’ultimo anno coi Latintristi, sì. appunto. compito in classe, a ridosso della campanella. Prof, ci lascia altri 5 minuti? Nuuuu, veloci, ragazzi, è urgente, devo andare, mi scappa la pipì.

Vocina di Bromur, in sottofondo (come al solito). Chiosa, chi osa. “Gò d’anà al cess”

No, Bromur, mi sono espressa in modo più sbarazzino. Quando sarò una nonna lombarda, forse…

Vocina di Bromur, in sottofondo (come al solito). Chiosa, chi osa. “cioè mai”

In effetti, Bromur, stavolta hai ragione, non sarò mai nonna, di questo passo.

Vocina di Bromur, in sottofondo “io mi riferivo al lombarda”

 

Sola seduta sulla panchina del porto

La panchina del porto, per me è facile, è la sedia intorno al mio tavolo. Da qui, con la finestra aperta, almeno fino al maggio odoroso, vedrò la fetta di lago che mi spetta. Uno dei motivi per cui amo l’inverno, che mi lascia appunto questo spazio agli occhi.

Sono giorni di riunioni inutili, di invalsi ché mi vien da dire come nella pubblicità dello shampoo “perchè io valsi (ieri) e (oggi) invalsi”. Di analisi del testo da pessimismo cosmico, di moduli di customer satisfaction in cui i miei alunni hanno dimostrato la poca organizzazione della visita alla capitale del Belgio. Quantunque non abbiano torto, next time li porto non in Belgio ma a Belgioioso.

Sono giorni di favonio poi di neve poi di aria calda, poi di aria fritta, poi di torta mimosa che me la sono comprata di per me perchè in tot anni di vita mai un caspiterolino di maschio con uno spuzzico rametto di mimosa, nemmeno comprato dai poveri ragazzi al semaforo. Ecchecavolo. Solo il mio piccolo Bromur, a lettura di versione di Cicerone effettuata, e al segno del “via con la traduzione, avete le solite due ore, è difficile, buon lavoro” ha esclamato “ah, prof: auguri”. E io che sono un pizzichino adirata con loro ho risposto, secca, ” Bom, il mio compleanno è a luglio, non buttatevi subito sul dizionario”. Esonstronza.

Cosa vi volevo dire? Niente. Che, come ogni anno, gironzolava sul web, in occasione dell’otto di marzo, il testo di Diego Cugia “donne in rinascita”. Un testo usuale, carino ma nientediché, retorico ma non troppo. Però stavolta me lo sono riletto con gusto, ne avevo bisogno. E allora lo posto qui. Perché mio malgrado sono una donna in rinascita, mi scoccia ma lo devo ammettere. Poi vi posto un quadro degli impressionisti che a me gli impressionisti nemmeno piacciono ma questo sì anche se pensavo fosse di MonetManet e c’entrasse col fare colazione sull’erba invece danzano nel mulino ed è Renoir. Sono ignorante da fare impressionismo.

E poi vi posto una canzone che mi è venuta in mente seduta qui al mio tavolopanchinadelporto che mi ricorda il mio terzo anno di liceo. Non è una gran canzone ma mi si è fissata dentro come quando a 17 anni non capisci bene cosa stai attraversando ma senti che attraversi e può bastare. E’ una canzone, è di Zucchero (che non mi piace, nemmeno tanto nel caffé del resto), ma Rispetto fu una grande narrazione.

Cosa volevo dire? niente. Che ci sono cose che mi piacciono pur non piacendomi, trafitta solo da un raggio di luce…