Doveva prima o poi capitare; mentre il medico di base pronunciava parole come androgeni, testosterone, estrogeni a mancare, non vorrei darle una mazzata finale e io a interromperlo “lei dottore, se lo ricorda il cartone animato Chobin? -oi oi ma com’è carino e dolce Chobin oi oi- che quasi gliela canto al dottore, divento come Chobin, una palla di pelo, insomma.
Che stavamo a 34 gradi e l’ambulatorio era vuoto, vuoto, lì dove di solito se son la terza in lista d’attesa ne esco dopo due ore, vuoto, mi dice “avanti” il dottore e io “ah no adesso per abitudine aspetto qua da sola un po’ fuori, mi son portata pure il libro”.
Doveva prima o poi capitare, androgeni, testosterone, estrogeni a mancare e il vicino di casa, quello col flessibile alle sette del mattino, mi dice ci son 33 gradi, non riesco a lavorare, sia ringraziato e lode agli dei vorrei dire io ma aggiunge “che bella sorpresa, tu sei incinta, auguri”.
No, ho solo la pancia ma mica stai a spiegare androgeni, testosterone, estrogeni a mancare, però prestami il flessibile giusto quei trenta secondi per tranciarti la giugulare e mettere fine a queste estati faticose. Non sono incinta, sono solo grassa.
Ma sei sicura? Miiiiiiiinchia, sì son sicura. Auguri lo stesso. Vafangul và.
Doveva prima o poi capitare. Stare ad asciugare i capelli sulle scale, in déshabillé e vedersi apparire sulle scale all’improvviso un uomo. Lo hai sognato tante volte, quel rifare le scale a ritroso, che sei cretina ancora a credere che le scale a ritroso c’entrino con l’amare. Senonché l’uomo apparso oggi, sfidando, conoscendolo, un muro di timidezza e riserbo ha la metà dei miei anni meno sei mesi, credo, ed è l’unico uomo non noioso con cui posso conversare per ore. Sulle scale, a 32 gradi. In barba a convenzioni di anagrafe, a etichetta, dopo lo shock di saperlo non così timido da non arrivarmi a casa senza preavviso, l’ardito, e superato lo shock del mio dress code dei 34 gradi, con l’aiuto di acqua e menta con ghiaccio ce ne siamo stati a Londra, a Parigi, a New York nei ricordi, nei progetti, nei libri nei poeti cerchi te.
Doveva prima o poi capitare. Riscoprire tramite un cinquenne, invece, che mandi da solo a comprare il gelato, guardandolo da lontano, tornare, i quattro gusti diversi di ghiacciolo ricordati, le manine piene di quello sciogliersi appiccicoso “zia mi hai dato un soldino in più”, vederlo lasciare il passo sulle scale a una signora, stupita quanto me e poi dire, solo a me “eh sì bisogna essere cavaliere”. Ma un pomeriggio con un cinqueenne può diventare prova di legami familiari con strascichi irrisolti, stronzaggini varie quando invece ci si potrebbe amare e basta, con meno fatica.
Doveva capitare, la gatta è alla pensione gatti, la valigia è sul pavimento ma tutto quello che potrei mettervi dentro è appunto anch’esso sul pavimento, la casa sarà sul fiume, da lago a fiume potrà essere facile, ho memorizzato due frasi da dire al telefono all’arrivo, che mi verrà da ridere a dovermi chiamare student. Una partenza può diventare prova, di ansia, di ipocondria, di prontezza. La terza cosa non l’ho vista, nemmeno lì sul pavimento.
Doveva capitare anche un’estate vera, lunga, possente. Che mi sfinisce, che mi fa difendere.
La verità è che in pentola, ho la sensazione che non giunga a bollore da tanto poi niente di nuovo, che un biglietto aereo non mi cambi più la vita da tempo, che essere benvoluta non basti mai, che aver scoperto di essere capace di desiderare il male altrui sia la scoperta dell’acqua calda, che faccia solo caldo, che un blog di ghiaccio al caldo si sciolga, è giocoforza; che faccia caldo, sì ma che scrivere non faccia invece nulla.