Attenti quei due

Gliel’hai promessa da otto mesi a quei due.
Una frase che pare il manifesto delle profumiere.

Quei due si vedono spesso di lunedì sera. Per cui facile prenderli due picioni, con una fava.
Una frase che si presta a capire che uno dei due. Forse.

Uno dei due lo posso guardare negli occhi e dirgli “ti ho salvato dalla carbonara di stato”. “E dal crostone della casa” aggiunge. “Che poi sarebbe un pezzo di pane posso con quel cazzo che ha in casa sopra”. E ridere che l’altro dei due non se la prende. Anzi sono il primo regalo di natale, quei due. Un pacchetto devo dire di forma cilindrica allungata. Un pacchetto che si presta all’idea del coniglio, come lo chiama una mia amica. Lo dico. Uno dei due risponde all’altro “te l’avevo detto che era meglio, infatti”. Invece è una candela. Smorza, uno dei due, la battuta.

Sono amici di vecchia data, della leggera amicizia. Meritavano di averla, la cena promessa.

Menù delle occasioni di quando devo alzarmi dal depresso divano, menu “quantomelatiro” che non è vero, è solo cura di sé degli altri della sacrosanta ospitalità.
Quei due ci han messo due bocce di rosso, come direbbe una mia amica. Io una ricetta meravigliosa presa dal blog di un’amica dell’amica.

Quei due, a fine pasto, si alzano con l’aria di chi va. Io dico “mbé avete ben mangiato ben bevuto, ora tocca a voi” frase che si presta a certi dopocena. Apro il cassetto della cucina, assumo un’aria svagata da protagonista di romanzo comico americano, diciamo un best-seller in odore di nessuna classifica. È l’ora della donazione. Ne tiro fuori un oggettino di forma cilindrica allungata, con stantuffino.
Dico “prego, chi comincia per primo” “ma poi dobbiamo agitare e mischiare” “beh io tra i due del resto, mi manca di averne uno” “tanto dopo si capisce di chi è” “no bibì tu dovrai pensare per sempre che è di bibò, e tu bibò dovrai pensare per sempre che è di bibì” “nel caso, un assegno ogni tanto farà comodo” “ma non potremmo almeno fare naturale, così per una volta” “che balle, ancora non ti annoia la natura?”ma ne potrebbero uscire due, uno di uno e uno dell’altro?” “Boh, Bibì, boh, Bibò”

Sto ancora ridendo.

(Menu diceva bis di primi con risotto alle vongole e zenzero e pancakes di lenticchie e crema di broccoli, secondo che si è acceso il paiolo –come inverno vuole– ed è stata polenta con scimudìn, dolce cachi al forno con amaretti che a dirlo sono strani ma la prossima volta col rhum saranno addirittura perfetti).

Hanno indovinato tutti gli ingredienti segreti, quei due.
Attenti, quei due.

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Crisalide o lagna. Però se magna.

Stamattina un collega, stanco, due chiacchiere. Che la risposta più difficile è sempre quella alla domanda “come stai”.
Che si sa, si va dall’ironia rassegnata del riciclo dei soldati e delle foglie d’autunno, allo stare come si sta, come te se ti scappa da ridere.

La risposta. Non sto né bene né male, sto come una che trascorre il tempo per passarlo, non so cosa rappresento, che senso ho.
(Lagna), si può commentare, non mi offendo. Il collega risponde “la fase della crisalide”.

Bello, dico, così quando poi esce sta caxxo di farfalla, tutto sto casino per vivere un giorno solo, che poi magari te lo danno d’ottobre e manco voli nell’azzurro.

(Minchia che lagna). L’avrà pensato.

Vent’anni fa festeggiavo il compleanno per la prima volta (tengo il conto qui e qui) del buon Silvestro, che in sti giorni gli vorrei dire un sacco di cose, anche non belle, a tratti gliele scrivo, poi cancello, paio una lagna, una volta gli scrivevo poesie, ora non mi restano che cuciture, gli vorrei dire che non amo quando passa del tempo con me guardando sempre il cellulare, che con altri non lo fa, gli direi anche che quando punto i piedi sembro aver torto, o parlerei di bugiette bianche, da maschio, ma che le bugie sono l’unica cosa che mi atterra davvero e mette filtri sporchi tra me e il mondo, e che da dentro non si vede, non si vede tutto da dentro il bozzolo della crisalide ma che son sicura che non tutta la leggiadria è necesse farfalla e che una lagna è una lagna ma raramente finge di saper volare e anche tra le lagne bisogna saper distinguere.
Cioè gli vorrei dire ste cose e vorrei anche non dirgliele, a Silvestro, allora gli faccio la torta, vah.

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Rotolo dalle risate o di cosa vuol dire ROFL

Siccome la sensazione della ragazza sotto la tenda del post precedente non era bella, siccome le atmosfere tese si aiutano sempre con un dono, con un atteggiamento di generosità e di apertura, siccome tali doni se fatti al forno sono la meglio cosa, siccome è l’una e mezza di notte e l’estate per me è solo notti che non si dorme, siccome duecugghiuni quanto la fai lunga che te la porti addosso sta cosa di farla sempre lunga, allora vi dico che come da copione, la commissione che ha maturato i Latintristi (ho già detto che mi mancheranno tanto?) ha mangiato a volontà, bevuto e sorriso. Il pranzo finale prescrutinio ha cementato l’idea che ce l’abbiamo fatta, ho detto loro grazie.
E mi sono rotolata, non dalle risate, ma però.

Questo è uno dei miei cavalli di battaglia di quando mi devo far perdonare di essere sta gran scassacocomeri.

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Che si fa con 3 uova, 80 gr di farina, 100 gr di lievito, 1 cucchiaino di lievito. Gli albumi vanno montati a neve, i tuorli sbattuti con lo zucchero tantissimissimo fino a raddoppiare il volume, va aggiunta farina, lievito, gli albumi poco alla volta, ho allungato con un goccio d’anice e nell’impasto ho messo la granella di pistacchi e le gocce di cioccolato. Ho infornato per 15 minuti a 170 gradi dopo aver steso l’impasto sulla leccarda del forno rivestita da carta ad hoc.

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Quando è ancora caldo va avvolto in modo che prenda la forma. Nel frattempo, a bagnomaria ho preparato la ganache di cioccolato fondente (una roba goduriosa di fondente e panna). Ho risteso il rotolo, messo le banane a rondelle sottili, coperte con la ganache, richuso il rotolo. Pensando a quanto è piaciuto (risveglia istinti fanciulli, con quegli ingredienti) ho capito cosa vuole dire ROFL.

Rotola o fottiti. E la elle? La elle non posso svelarla, mi sa.

dulcis in fundo (never ending parrozzo)

“sto parrozzo è diventato un affare di stato” mi dice al telefono dopo essersi accertato che no, non l’ho ancora preparato, malgrado lui abbia chiesto a zie, cugine e a mezzo Abruzzo quale semolino usare perché lei non lo sapeva.

Lei per dirla tutta non sapeva nemmeno cosa fosse sto parrozzo prima di dieci giorni fa quando il lago era ancora uno dei suoi tramonti dolci e l’amica di sempre le chiedeva “digli di spedirti un parrozzo per me”. Te lo fo io, amica di sempre, il parrozzo, e ora che non sei partita per il viaggio di nozze ma per un triste funerale quando torni ci mettiamo a dieta, insieme, la mattina dopo la notte del parrozzo, promesso.

Ora che so cos’è il parrozzo, che tutti gli ingredienti sono pronti lì sulla credenza, che gli ultimi dubbi sono sul lievito se ci va quanto ce ne va, ora che ho capito che una volta fatto potrebbe essere il mio dolce preferito, ora che ho perfino trovato un surrogato di stampo da parrozzo che vi sfido a trovarlo in lombardia lo stampo adatto e come si suole è stato reperito dove mai più pensavi e ti è costato appena due cartelle della tombola di ieri, dove hai sbancato perché fortunata al gioco, giusto a quello. Ora che.

Ora che qualche abruzzese mi aiuti. Ché sto parrozzo faciendum est.

Ingredienti del parrozzo pronti che mi guardano e dicono “allora te vui mòve ca natale è furnut?”

200 g di zucchero
150 g di cioccolato fondente
30 g di burro
150 g di Semolino
6 uova
1 limone
200 g di mandorle dolci

Che poi l’ho cercato su internet e nemmeno a farlo apposta finisco che m’imbatto sempre in lui.

P.S. La si è aggiunta mezza bustina di lievito; sfornato e raffreddato, il parrozzo si è ammantato di una glassa composta di cioccolato fondente e burro fusi a bagnomaria. Una notte in frigo e apriti frigo che meraviglia. La condivido.

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