La regola del sesso forte e dell’anguria

Uomini forti, di spiccata personalità. Eccessiva. Diciamo narcisi, diciamo sicuri.

Diciamo come me, che uomo non sono. Me. Che non sono nemmeno in vena di subire, per un quarto d’ora di celebrità, nel quarto d’ora che potete noverare di mia conoscenza (lavorativa) (non biblica, che la bibliografia è cosa seria) l’elenchino di tutto quello che avete capito di me.

Che stiamo lavorando, e se non lavoro bene, ditemelo, che aggiusto il tiro. Se invece non vi piace il mio carattere, (ma sì che vi piace, altrimenti le vostre battute le fareste anche a quella di inglese, no?) ( oh, non ditemi che la leggerezza la attirano le tette, non vi fo così dappoco, voi, oh grandi uomini). Se non vi piace come sono, imparate a fare come gli adulti, che quando si incontrano a una festa non vanno da tizio e caio a dire “ma tu mi sembri un cretino, oppure sai a prima vista mi pari un coglione”. E da Caia a dirle “te lo metterei subito dietro, oppure non ti bomberei mai, sai hai i baffi”.

Un mio compagno delle medie, cui chiedevo coi bigliettini di diventare il mio moroso (l’errore, gennara, l’errore, non scrivere, non scrivere, leggi, impara a leggere), che proprio non ci voleva diventarlo, mio moroso, mi rispondeva canticchiando sadico “hai la barba hai la barba” ed era pur vero. Ah, dispensatori di verità, i grandi uomini.

Si entra nella vita di una donna schietta e che vi tiene testa con la stessa giusta distanza con cui si entra nella vita di una donna con la fede al dito, madre di famiglia. Cosa c’entra? Dai. Perché poi, a girarla bene, uomini di forte carattere, finiamo qua. Che non volete cacciare, non potete cacciare, non vi interessa la caccia, ma la savana l’annusate sempre, iene.

O è un problema mio? Vuoi vedere che è un mio senso di inferiorità (il figlio, l’aver usato la patata in modo sacro per farci uscire e non solo entrare, l’anello al dito e bla bla bla?) Ammettiamolo pure, vada, ho scompensi ormonali, perdonatela questa signorina, di ovulare a vuoto smetterà, pazientate, amen.

E quegli schezi di intesa, quell’ironia che mi fa male attira anche l’invidia di chi non ce l’ha. Di a chi non gliela date? Incastrata tra la piacioneria e il volitivo maschile ci lascerei volentieri qualche altra. E per una volta capire il meccanismo mio, il click che scatta che faccio scattare ad attirare il maschio modello domatore di cavalla di razza. Che li attiro io. Fino a che la cavalla di razza non è stremata a terra e sempre più cretina, la tenta di rialzarsi.

Se è di lavoro che stiamo parlando. Se no, sappiate che fare le scale con le borse della spesa in mano, la borsa della scuola sul collo, mi è difficile. Faccio la spesa in più tornate settimanali, spese parziali e guardo l’anguria. La guardo con desiderio, fresca, colorata, appetitosa. Ma da sola, quell’anguria peserebbe troppo, con le scale, la borsa dell’altra spesa, le bottiglie dell’acqua, la borsa del pc e la borsa della scuola. Troppo, per me.
Allora rinuncio, all’anguria.

Se solo lo capiste, come fanno la spesa, da sola, certe donne.
Se solo indovinaste.

Sorniona

Post ad alto tasso di egotismo. Da leggersi anche no.

Ce l’abbiamo quasi fatta io e lagennara. Lo pensavo guidando in mezzo al traffico stamattina. Lo pensavamo guidando andando tornando che lagennara ancora soffre per i giudizi degli ottusi, per i punzecchiamenti dei cattivi, per le moine degli ipocriti. Lavorare, bene, non sentirselo riconosciuto, ingenua lagennara che ancora lavora in nome di un riconoscimento. All’istituto Durocome, poi, dove tutto la scalfisce, e tutti sanno che lei è l’unica scontenta, l’unica sempre incazzata nei corridoi, una che va in giro borbottando. Io. Stento a riconoscermi. So che ho torto, perché prendermela per gli ottusi, gli ipocriti e i cattivi (tralascio pullulante categoria degli ignoranti) ho il torto di misurare il mondo come se io fossi quella giusta e gli altri cattivi, ipocriti ottusi, ignoranti. Sono come loro, quelli che mi stimano mi vogliono forse bene e mi stimano perché mi vogliono bene. All’istituto Durocome non mi stimano. E non so sorriderne col consiglio degli amici “futtetenne Gennà”.

Guidando, tornavo. Dovevo prepararmi il pranzo, costolette d’agnello il menu, in mezzo al casino, alle tazzine del giorno prima che pure in bagno le lascio, che bevo il caffé quasi in contemporanea con la doccia. Ci credo che non vado stimata, vah che schifo. Tornavo, piove, toh, che novità, gesto di andare a scegliere un cd. Non è mai casuale puntare il ditino tra centinaia di cd. Piove, scelgo quello, sapendo che mi automuovo malinconia, il cd dei grandi traslochi malfattimaifatti, il cd delle partenze non intelligenti, il cd che l’amico dei cd disse “compratelo, da una settimana lo ascolto e mi dice che sta parlando di quello che stai passando te, gennà”. Piove, cd sul piatto.

Evidentemente il ditino puntava sui pensieri. Splendido il cd, splendido lui che canta, visto dal vivo il Danielino, un paio di volte, uno di quelli che sul palco si regala, che sa ogni minuto che su quel palco ci sta perché sotto ci siamo noi, e gli italiani non se lo ricordano spesso, musicisti spocchiosi certi italiani, invece Silvestri si diverte con i suoi musicisti, alla pari e ti dice grazie che quasi ti chiama sul palco. Ma ora sono OT.

E ora invece torno a bomba. Che la dovrei smetter di mangiar tutto quell’aglio. Questo è il pezzo, oggi che dice come vorrei diventare io “Non discutere di ciò che sai, Su tutto il resto, esprimi sempre un’opinione! Chi non conosce dignità, non può nemmeno percepire umiliazione e se qualcuno mai te lo rinfaccerà non gli rispondere, sorridigli SORNIONE!…SORNIONE!”

basta ‘na jurnata ‘e sole

danno neve tutta la settimana, tranne martedì; martedì era oggi, e avevi un consiglio di classe a metà pomeriggio, di quelli che ti spezzano la giornata, non fai in tempo a fare niente prima, non fai più in tempo a fare niente dopo. Solo a guidare, nelle ore di punta. E guidi, che per me guidare è odio e amore perché c’ho il culo tosto come una ragazzina e la mia teoria dei massimi sistemi è perché invece di gagbodiuorkautpilatesezumba io guido, talmente male che ci sto col culo teso e faccio gli esercizi sul sedile della panda. Esercizi al limite del tantra. Tantra roba. E guido e all’andata mi becco davanti l’ottantenne che va a venti all’ora, saracco tutti i santi della neve di marzo e dico “porca paletta questo è un paese di vecchi rimbambiti”. E guido al ritorno, per evitare il traffico campagnolo mi inerpico per saltus e mi becco l’auto della scuola guida col diciottenne che va a venti all’ora e dico “porca paletta questo è un paese di giovani rimbambiti”

porca paletta.

Poi ti sei alzata con l’immagine di aver sognato una Corvette parcheggiata dentro incastrata di traverso nella tua automobile e sognavi che la vedevi dalla finestra sta Corvette incastrata a romperti il cruscotto dell’automobile tua e lo raccontavi a tuo padre, sai una Corvette, ah sì, lui diceva è successo anche a me, proprio una Corvette, è qualcuno che vuole farti un dispetto. Poi arrivava una donna e restituiva al tuo babbo della biancheria, tipo trapunta colorata dicendogli al tuo babbo non mi serve davvero, riprendila. Io guardavo la trapuntina e indispettita al grado 8 della scala mercalli e ingelosita tale e quale mi chiedevo perchè non l’avesse data a me, la biancheria e non a quella sconosciuta.

Sconosciuta? e poi soprattutto, che macchina è una Corvette? Non ne ho idea, dovrò chiamare il carroattrezzi ciemmequ. Che la devo scastrare sta corvette.

La regola è onirica ma dice pressapoco che nevica a marzo, che martedì c’era sole, martedì era oggi, che scrivere mi fa inutile in questi giorni in cui mi tremano i bordi dell’anima solo a guardare il cielo ma che basta ‘na jurnata ‘e sole…

ps. buon compleanno Pino e auguri a quello che regala biancheria a sconosciute 😉

ti vuoi tutta pizza e bufala?

ti svegli alle cinque del mattino, sudaticcia che lo capisci che è cambio di stagione, dagli uccellini che fanno concerto che nemmeno in un’ode di D’Annunzio, cipicì cipicià, quanti cazzo sono cipicì cipicià. Che è meglio vah che vivi in Italia e non in Amerdica alla fine sennò oggi andavi al supermercato e ti accattavi una pistolina un fuciletto e pam agli uccellini, cipicì cipicià.

Cinque del mattino, intrisa di sudore, dici, perché sì, sbagli, torni a dirtelo, l’insonnia, il sudore. Sarà la meno pausa. Meno male, dici, una pausa. Dici. Cipicì cipicià.

Perché il mondo si regge sulla bufala, l’amore è una bufala. Che so, come se mi venissero a dire abbiamo visto Dr. Vival’IVuGì in una foto sorridente di famiglia, piena di bimbi sorridenti, tutti felici. Che se me lo venissero a dire, maddài, fammi il piacere, è una bufala. Aivoglia a ridere se la vedessi davvero una foto così con Dr. Vival’IvuGì in un quadretto di famiglia.

Cipicì cipicià. Una bufala.

La mattina dopo, se anche fosse vero, tornerei a vedere le cose come stanno.

Come stanno?

Stanno tutti bene.

Stanno che è davvero cambio di stagione, che ho trovato in rete una frase che dice che non siamo colpevoli, ma solo responsabili. Mi è piaciuta, sta frase.

Poi no. Perché io sono stata irresponsabil, altroché e dottor vival’IvuGì è colpevole. Si facesse, si fa per dire, tutte le foto sorridenti del mondo con miliardi di figli già fatti acquisiti sorridenti del mondo, lo stato di minchia(na)polis gli istituisse un premio apposito di father of the century.

La mattina dopo, lo sapresti, che la foto sta negli occhi di chi la guarda. E chi la guarda la vede la macchia.

Io che scambiai per amore un passatempo, io che mi bevo ogni bufala. Anzi la mangio, che pizza. Che pizza, ancora. La bufala sulla pizza fa acqua. Da tutte le parti. Ecco forse l’insonnia, il sudore.

L’indomani lagennara si svegliò lagennara.

Si sente che è cambio di stagione. La stagione della bufala viene e va. Sono stanca, che pizza.

il padre dei fratelli La bufala.
il padre dei fratelli La bufala.

 

 

voglio una pelle splendida

UNO. venerdì 1 marzo, treno regionale, all’altezza della stazione di Busto Arsizio, ore 18.00, luce che cala, qualcuno legge nello scompartimento, abbiamo i cappotti, non funzionano né luci né, ovviamente, riscaldamento. Su questa linea, capita una volta su tre, non ci faccio più caso, la mia stazione non è provvista di biglietteria aperta né, ovviamente, di biglietteria automatica (anzi c’é ma sigillata perché rotta, da sempre). Io salgo senza biglietto, sempre, poi passa controllore, taccuino alla mano, il biglietto me lo fa, se passa. Accanto a me una signora, una cinquantina, ad occhio, portati elegantemente, scarponcini sportivi (la stazione di partenza tra i monti si perde), capello corto, trucco perfetto, bella. Bella e di classe. Legge. Fino a quando non passa una ragazza, la capotreno, in divisa, trentacinque. ad occhio e passando la signora le dice “le accendi o no ste luci, stronza”. Parapiglia, la capotreno con ironia ma fermezza, le chiede il documento, no signora, non il biglietto, il documento, le prende gli estremi, riceverà una querela a casa. La signora eh no eh mi dia anche lei allora un documento, eh no, io non sono tenuta, signora. Io, timida, dico, devo fare il biglietto. La capotreno cerca col sorriso la mia approvazione, la signora, aiutata da altri nello scompartimento, cercano la mia approvazione; il dissenso, ah il dissenso, porco mondo schifo, non funziona mai niente e non avrebbe dovuto darle nemmeno il biglietto. Insomma, viaggio gratis io, nessun ritardo. prendo pure la coincidenza.

DUE. venerdì 1 marzo, Frecciarossa per Bologna, ore 19.15 al tavolo con me tre chiassosi portoghesi (o brasiliani, non mi è stato dato capire, poco importa ai fini della storia), cambiano i posti fino all’arrivo dei prenotanti, sono tre, due uomini abbronzati, mediterranei, nemmeno male direi e una ragazza bionda alta, una modella. Due di qua, uno di là, non vicini, di mezzo il corridoio. Il mio dirimpettaio si toglie le scarpe allunga le gambe ovunque fino a che io non so proprio come difendermi dalle gambe e dal risucchio violento che fa col naso ogni trenta secondi, una cosa impossibile quel tirar su col naso, forse un problema di salute forse, forse un tic, i piedi, il naso, l’Ipad che si passano di continuo in mezzo al corridoio ad alta voce pieno di foto di scarpe eccezionali, d’alta moda. Io sbircio le scarpe, tacchi da quattrocento euro, voce alta, i piedi, il naso, un’ora quaranta euro il frecciarossa.

TRE. sabato 2 marzo. ore 11. parrucchiere di fiducia, mea culpa il coiffeur lungo via Santo Stefano, storia lunga e poco aristocratica, nemmeno un pizzico “gauche caviar”, lo giuro. Insomma, cuki alluminio tra i capelli, signore anziane con pellicce, una che lo dice non la mettevo questa da tempo, guarda che allergia sul  braccio che mi fa, io zitta, io gauche caviar un cazzo, le labbra a canotto di questa settantenne, e il siparietto “i cinesi son tutti sporchi, i cinesi son tutti sporchi”

QUATTRO. ore 15.30 bus viale Mazzini, linea 27b (boh), mentre il bus arriva e gira dalla strada una piccola auto gli taglia la strada, si ferma in mezzo alla corsia, poi a tutta birra correndo, tagliando le strisce pedonali, anticipa il bus, parcheggia sul viale, esce un uomo, corre verso la fermata, sale spintonando, urla “testa di cazzo mi hai rotto la macchina testa di cazzo, io ti sputo in faccia testa di cazzo che mi hai rotto la macchina”. E sputa. Sputa in faccia al conducente del bus che non fa una piega, si prende lo sputo zitto, tra la gente sul bus che dice “ma è stato lui a tagliargli la strada”

CINQUE. senza data senza ora, portico dei Servi, osteria del sole, museo della musica, circolo Mazzini. (intermezzo)

SEI.  ore 23: mentre Manuel Agnelli degli Afterhours intona (se così si può dire) “Voglio una pelle splendida”, la mia pelle è tutt’altro che splendida, la mia pelle non respira l’Estragon è una nuvola di fumo; fumano tutti intorno a me, mentre ballano, attaccati l’uno all’altro, fumano che devi stare attenta, ti urtano e fumano con le loro sigarette tra le dita. Perché esiste una legge che vieta di fumare in luoghi pubblici ma i bolognesi l’han dimenticato.

a monosillabi

Deve essere stato quel “come sei bella” appena sveglia, striata di sonno, la prima cosa detta.

Deve essere stato che somigliava al “come sei bella”entrando in doccia, dai insieme a me, l’ultima volta che ti vidi, che tu lo sapevi che era l’ultima. Si sanno un sacco di cose quando sei tu che le decidi.

Stesso sussurro come se dirlo quando ci credi ti fa affiorare la voce d’incanto.

Deve essere stato quei “come sei bella” così uguali a segnare cose che non accadono mai a farmi cercare allo specchio.

Per forza ti vengono le rughe, se non sorridi tanto spesso.

A teatro dici “che palle” ed è la prima volta che lo dici ed un collega ti corregge no, tu l’esperienza del che palle è tanto che la fai, solo che dopo entra in gioco il tuo “devo capire”.

Hai la librite acuta, le pagine son ferme. La maglite acuta, i ferri chiusi allo scalfo della manica.

“come sei bella”, presti il fianco; osservi il fianco. Non siete al mio fianco. Un fianco vuoto di capriole embrionali, solo ombra di piegamenti a portarceli appesi.

Come sei bella e mentre intorno a me imperversano cose importanti, sto a monosillabi.

 

Una domenica in piena regola

Che tu prendi i biglietti per l’opera lirica con quattro mesi di anticipo e l’amica ti dice che sogno sarebbe, vieni anche tu, non esci da tempo, la bimba per una sera la tengono i tuoi. Tanto è febbraio, il 3 febbraio, aivoglia fino a febbraio. (la regola del dai prenotiamo)

Che ti dicono “ma quando te lo smollo il tuo regalo di natale, e dicembre finisce e gennaio finisce e ci viene da ridere che il corriere l’ha portato sto regalo ma sì dai tanto ci vediamo il 3 febbraio, ormai. (la regola del tanto dai ci vediamo)

Che magari ci scappa l’aperitivo e la pizza prima della lirica, e al pomeriggio l’amica dice la bimba ha la febbre, la pizza forse non ci sta. (la regola dei bambini e della febbre)

Che all’uscita dell’autostrada precedente a quella giusta l’auto decida di singhiozzare puzzare infocarsi ricordandoti che forse il meccanico no, non l’ha capito cos’hanno sti freni alla macchina, no, la pizza non ci sta, prelevate al parcheggio dieci minuti più in là. (la regola della panda, p’andaffanc…)

Che il panino del bar del teatro insomma è un sostituto un po’ come il baritono, preso dal coro parrocchilale all’ultimo momento e la soprana che mi arrota la “erre”, crrrrrrroce e delizia che il gre-gre di ranelle del pascoli è un suono dolce, al confronto. Che dire del tenore, il tenore dei commenti. (la regola del credersi Julia Roberts al San Francisco Opera House)

Che Violetta era lì lì né felice né più eterea quando alle ventitré la bambina arriva a quaranta di febbre e il nonno chiamava spaventato così c’é stato da provare l’ebbrezza di prendere un taxi visto che l’auto era in panne e sparire nella notte, che erano tre mesi che non uscivi di sera.  (la regola dei bambini e della febbre che la tachipirina non fa effetto quella sera lì)

Che per evitare altri strascichi e arrivare al lavoro per le otto, mi si accompagni seguendomi a bassa velocità per tutto il tragitto dell’autostrada e l’auto va bene, comincia a sfrigolare appena prima di casa che così in tre si è fatto il doppio chilometraggio per tutti. (la regola della panda, in estinzione)

Che io abbia sognato di precedere Silvestro e mostragli la strada in un percorso avventuroso tra liane, foreste, ponti di legno e negozietti di alimentari in una qualche toscana insulsa ed ero fiera di non incespicare ma anzi quanto lieta e avventurosa fossi. (la regola del questo c’entra poco ma è funzionale allo svolgimento della narrazione)

Che io abbia aperto gli occhi e la luce non era quella delle sette ma cazzocazzarola le otto e trentacinque e nessuna delle tre sveglie gennariche abbiano dato segno di adempiere al compito e che niente canto quindicesimo del Paradiso nemmeno questo lunedì. (la regola del chissà com’eran contenti i Latintristi)

Che però ricevere un regalo di natale al tre febbraio e scoprirci dentro un bell’oggetto, immeritato, che mi permetterà di non fingere e smettere di dissimulare che con l’ipad ci posso continuare a fare solo candy crush saga. (la regola bellissima degli amici e del loro pensiero)

Eh, son soddisfazioni, della domenica.

 

la signora del sudoku

La vedo tutte le mattine, nel parcheggio, arriva presto, me ne sono accorta quell’unica volta che arrivo presto anche io. Il parcheggio più vicino all’ingresso, il più ambito. Il primo ad essere occupato. Fin dalle 7.45

Una piccola utilitaria, dentro una ragazza, al posto di guida una madre. Ogni mattina. Ogni mattina, in quell’abitacolo, la ragazza sta lì ferma, la madre fa il sudoku. In attesa che arrivino le otto. Non si parlano; la ragazza sta lì, ferma e la madre ha il giornaletto del sudoku appoggiato alle razze del volante, la biro in mano. Fin dalle 7.45

Alle 7.50 arrivano le auto dei colleghi, a rubarsi la decina di posti più ambiti, di cui uno già occupato. Alle 7.55 arrivano i bus che fermano lì proprio di lato, cominciano a sciamare gli alunni del comprensivo, attraversano le auto ferme, le auto in manovra. C’è una vita in fermento prima della sistemazione sotto i neon delle classi.

Alle 7.59 arrivo io, di solito, ci trovo l’ultimo dei parcheggi ambiti, a fianco della signora col sudoku e la figlia dentro. Non parlano, aspettano, forse,  le 8.00. Malgrado siano dieci minuti che tutto ferve intorno a loro. Io non la vedo uscire la ragazza, io corro, ogni mattina, presa dal tempo e dagli ingressi, dai miei pochi ricordi.

Fa freddo se il riscaldamento dell’auto si ferma, in ste mattine. Ci sono ancora macchie di neve, qua e là. Luci natalizie, quegli intollerabili babbinatali rampicanti sui balconi di case fronte parcheggio. E una ragazza ferma. E un sudoku da finirsi.

Di barche, di ghiacci, di cose di cuore

Non volere il televisore per anni, passare per radical chic mentre accenderlo ti costava sapere che sotto il plaid sul divano mancava qualcuno con cui discutersi il telecomando, o baciarsi, nel caso.

Una barca che quando non è tempo di navigare, sa stare ai margini dei muri di freddo.Foto1635È ancora dicembre, riconosci i paesaggi ma in Fargo dei fratelli Cohen ti rimane poco chiaro il senso della scena del compagno di classe della poliziotta incinta.
Cammino ancora facendo buchi nel ghiaccio, per leggiadria, per pesantezza, perchè il suono della lastra sottile che cede somiglia alle mie disarmonieFoto1630

Il ghiaccio può essere una miccia. Si complica l’elenco degli errori e dei legami intelligenti e intransigenti.

scema 2.0

Quando non si cambia mai, si sta in coda in ambulatorio dal medico di paese, quello leeeento che ci passerai tutta la mattina, già lo sai. E te li ascolti tutti i battibecchi degli anziani di paese, che si conoscono da una vita, belli misti, vicini di casa, con la loro chiacchiera lombarda, che mi piace, e poi l’emigrante qui da 40 anni ma con la cadenza sicula tenuta bene. Il termometro segnava 38° tra un “io pago le tasse qui non mi puoi chiamare terùn” “ah, pe’i tass sem tucc italiani”.

Che poi l’ambulatorio sia di fronte al nido comunale, di fronte alla mia sedia, il nido comunale che per poche settimane arrivi a pensare anche a quello, in poche settimane, beh, mentre il tempo da grigio diventa sole la tenda della finestra si sposta e tu, miope miope e con 38° le vedi bene le manine appiccicate al vetro. Le mani di un trappolino. Ad occhio e croce diciannove mesi. Più croce, diciamolo. La mia.

Quando non si cambia mai sei sempre entusiasta e stimolata nel fare sempre cose nuove, infilarsi in nuovi progetti, in nuove occasioni. Quando non si cambia mai, ci si accorge in fretta anche che dietro al nuovo si nasconde la confusione, lo stress, il provarci di chi davvero tenta di credere a cose da nulla. Ma forse il senso del pulito è crederci davvero. Io sono sempre inadeguata, o temo di non esserlo; lo stress mi sale a mille, incolpo gli altri di lavorare male, invece sbaglio io e farlo a 38° non è un’attenuante.

E così dovevo fare una cosa importante mercoledì e giovedì. E, se va bene, sarà solo giovedì. Per ora ho dimostrato solo di non esserne all’altezza, almeno emotivamente. La febbre c’è, per giovedì danno neve.

Che intanto la vedo scendere sul mio blog e mi chiedo quanto scema dovevo essere l’anno scorso. Perché a quanto pare non è vero che non si cambia mai: si evolve. E io non sono la scema di un tempo. Sono una scema 2.0