Ma cosa conta…

Quanto ci è dato da vivere.
Quanti mattoncini di Lego siamo, quando ci inscatolano.
E quando ci inscatolano, il mistero di cellule che nuotano in acque mosse dal sesso. Da quello più bello.

Quanto ci è dato da dare. E perchè nella mia vita, una staffetta. Una ragazza bionda, di un cuore grande, poco più di trent’anni. Lei mi pareva aver più diritto di me alla vita, me lo sarei preso io il male che la cancellava, così bella con i pupazzini colorati nei vasi di fiori. Io non ho nemmeno il pollice verde. Io che andai al secondo matrimonio, con l’idea di esserci sempre a quelle sbagliate, di nozze, il giorno che presenzierò alle mie, andrà via la percezione?

Poco meno di trent’anni io, e l’attimo in cui ho creduto di più in Dio, quel giorno, quel foglio, un foglio medico, quasi un foglio di via. Guardavo su, non ero triste, dicevo allora ci sei mi hai sentito hai esaudito ma che stronzo. La collega che ti seguiva silenziosa mentre imparavi a insegnare, che ti sostituisce agli scrutini. Il mio assurdo senso di colpa che a me lo tolsero da dentro, il male e lei lo prese, per sostituzione (si arriva a pensare cazzate, a pensare a fili nascosti, il caso non ti basta, il caos scientifico lo lasci agli atei profondi, anzi all’odontotecnica dei perfetti senzadio)

Io in mezzo a un incrocio di morte. Io viva. Due delle persone che amavo al mondo, no.

Quanti giorni ci sono imbustati, mentre urli lacerando le madri.
Quanti ne ho passati col sorriso tra le mani. Che il sorriso non saliva alle labbra eppure avevo i giorni e non lo sapevo.

La staffetta non mi piace, getterei a mare, lontanissimo, il testimone. Lo sfracellerei contro tutti i muri cui ho augurato di sfracellarsi chi si fece arrogante contro la conta.

Lancio via il testimone, sto a guardare, inerme, la Pasqua di Resurrezione.
Sono auguri, e non lo sembrano.

controluce tutto il tempo se ne va

Il narratore onnisciente mi lascia sola spesso, si nasconde la pagina dopo.

Così succede come fuori che di sabato c’è favonio e io traghetto non sottocoperta respirando luce e febbraio, forse quello alto era capitan findus sulla sponda di là ma poi forse no, chissà se lo riconosco a capitan findus, dicono che quando il capitano viene il campanello suonerà; domenica c’è stellata e tutti dicono domani nevica, ma figurati, poi ti alzi è lunedì alle 7.00 dici vedi? ma quale neve, vai a fare la pipì e alle 7.20 e dici oh la neve, e mercoledì di nuovo luce e sole; nel frattempo sanremo che non vedo, il papa si dimette, nel frattempo 10 politici candidati alla regione rispondono alle domande dei professori della provincia e nel frattempo scopri che dicono a noi in che condizioni stiamo, e a destra dicono se le tasse le lasciamo qui alla nostra gente investiamo sulla scuola e a sinistra dicono compriamo dei caccia in meno e investiamo nella scuola.

Nel frattempo di cosa?

Il narratore a febbraio mi mette i ferri per tricottare in mano e io tricotto con un nove nella destra e con un 6 e mezzo a sinistra e non capisco perché il tubolare sfalsi le misure, poi capisco, rido, disfo, ricomincio.

Il narratore mi fa chiedere mare o montagna? La voglia di ciaspolare si incarta con quella di sbirciare l’orizzonte e leggere al mare d’inverno, un concetto che gennara, sai considera. Poi, scommetti, finisco in città.

Il narratore onnisciente lo sa, poteva dirmelo che la prima scena dell’ultimo film di Altman è ambientata in quell’autobus fermo per farci colazione nella città di un grande scrittore, un grande fumettista, un grande musicista funky. Quella. Se il narratore onnisciente lo sa, lo dicesse a brezny dell’oroscopo di non dirmi che se non ho un amante per performance erotiche pressoché sacre (o non so l’inglese?) mi basta immaginarlo.

Il narratore onnisciente è giù di trama. Come una foto dal vetro.

Il correttore di bozze, alla fine, abbia cura di eliminare l’abbondanza di aggettivi “giusto” “sbagliato” di cui infarcisco inutilmente febbraio. And my secret life.

Foto1803La vedete?

Noli me piangere

Infatti la Liguria è proprio una delle regioni che preferisco seconda forse solo al Piemonte, sorpassata di poca misura dalle Marche alle quali antepongo però l’Abruzzo e senza dimenticare che tra i miei paradisi c’è il mare di Calabria, il Friuli che ho recentemente riscoperto e la Sicilia che però le batte tutte.

Giorni di mare ai primi di settembre, partite con quella leggera idea che al mare saremo sole. Così non ti capaciti di quell’assalto al parcheggio al Malpasso lungo Aurelia che alle 7 e 30 del mattino è già pieno perché forse in quel tratto lo occupano fin da notte, deduciamo, e ci dormono dentro, non ti capaciti che per quattro giorni le locande di FinalBorgo siano prenotate e se riesci a mangiarci una volta è dopo le 22 e perché sei con una residente che conosce il proprietario. E che alle 22 solo così salti la coda di chi è in coda per cenare.

Alla fine dei conti sai che non è la riviera romagnola (ed è per quello che ci vai, oltre alla comodità di vivere sull’autostrada sempre vuota che ti ci vomita lì in un paio d’ore) alla fine dei conti quel tratto di mare con quella ghiaietta chiara che solo in Grecia tu l’hai vista ti ripaga di ogni sforzo ma alla fine dei conti l’ingresso alla spiaggia era 5 euro come l’acqua seduta in pizzeria, parcheggio 1,80 all’ora,  l’ombrellone con la sdraio 24 euro che tutto moltiplicato tre diviso due dici perché son tre giorni sennò non potevo. Sandali di cuoio in saldo 30 euro (mica potevo lasciarli lì) (OT ma è perché si tratta di scarpe).

E arriva la frase precisa “ma la crisi dov’è?”. Perché poi la crisi la cerchi in casa d’altri, tu sei lì, pensavi saresti stata sola al bagno, illusa, e tutti gli altri, dici, cosa ci fanno in Liguria a settembre, se c’è la crisi. Perché la crisi è anche narcisa, eh. Poi ragioni perché il caldo non lo impedisce, eh di ragionare, che non è poi un caldo così fuori stagione, a settembre é ancora normale. Ragioni e pensi non dovevo lasciare scienze politiche a metà, dovevo studiare ché in tempo di crisi non fai dieci giorni di mare ma quattro, non li fai con l’aereo ma sull’A26, non vai a Malibù ma a Varigotti.

Ragioni ancora, ridendo davanti alla vetrina di una immobiliare con Tumistufi che mi guarda entusiasta davanti al cartello di una ringhiera sull’azzurro e la scritta ” da riordinare, soggiorno cucina abitabile, camera bagno sulla spiaggia con cinque punti esclamativi” mi guarda entusiasta e dice “gattaGenni con 45mila a testa siamo felici per sempre”. Tumistufi, manca uno zero. Novecentomila, non novanta. Che forse a Malibù te la cavi con meno.

Non ragioni più perché non ne sei capace, lo ammetti e poi perché hai fame, dici son tre giorni crepi l’avarizia e ti siedi nei vicoli di Noli per partire presto che alle 15.40 la A10 il Cis viaggiare informati te la dice già bollino giallo.

Ti siedi e senti la serenità di chi alla fine se l’è potuto permettere e ha messo da parte per quattro giorni il negativo, ma che sa che esiste. Ti siedi e sai che in piccolo sei fortunata, hai un lavoro e ti piace, che sei fortunata anche in grande, non sei malata, non sei da sola, intorno a te in famiglia tutto per ora scorre ordinato, ti siedi ascolti il cameriere dare la colpa ai comunisti (testuali parole) saliti al potere in Comune, ordini un frittino di pesciolini che sai che da domani ciccia.

Ti siedi e in silenzio tu lo ringrazi il narratore onnisciente, lo ringrazi perfino di avere amici di facebook che non conosci ancora ma che l’amicizia è nobile ovunque la fai e ti ospitano in una casa bellissima; lo ringrazi insomma Quello, ed è come la vecchia abitudine di pregare davanti al cibo quotidiano, un’abitudine che tu, credente sghemba, credente a tre quarti, non pensavi di avere ma forse è lei ad avere te, un’abitudine di spirito che fa strade certo contorte se sale a fior di labbra sopra un fritto misto.

Dici grazie, lasci il parcheggio a uno dei trentasette in auto sotto il sole che attende se ne liberi di grazia uno, riprendi l’autostrada e torni a casa dalla Liguria di settembre.

Mia sorella

Mia sorella è una splendida ragazza che è nata troppi anni dopo di me per non esser stata il fratello che volevo.
Mia sorella ha gli occhi chiari e le efelidi, segno di un gene recessivo che le disegna un viso bello.
Mia sorella non leggeva per non essere confusa. Con me.
Mia sorella mentre io non infilo crune negli aghi, con un giro di martello, di stoffa, di legno, crea concreta.
Mia sorella è l’unica che si chiama mamma ma io sono madrina; di zia ce n’è una sola quindi a PonciPonci il primo ghiacciolo la prima vera estate fui io a lasciarglielo suggere. Nei ghiaccioli azzurri sono propriamente zia.

Mia sorella fu quella a dire, senza magoni, guarda che sarà difficile da sola, ma sì che ce la fai.
Mia sorella se non la sai non è quel che si dice sole, socievolezza e simpatia, in nome di quel nome che io le scelsi, per contrarietà. Sempre un nome di azzurre, per una che nasce a portare marzo.

Mia sorella ieri sale in casa, dice non ho fatto in tempo a impacchettarlo però, che quella benedetta donna dice la statale sei te fancazzista che mia sorella la odia la scuola e mica stima chi ci lavora, mia sorella non ha tanto tempo. E mi porge un sacchetto.
Io estraggo guardo e le dico stupita “questo è uno di quegli oggetti che ti ci vedo bene a farli bene te” Mia sorella sorride tra il bene e il beffardo, mi allunga il suo “mavahdavvero?”.

E lì capisco che mia sorella ha una sorella scema che non capisce. Ma lei lo sa, credo sia per questo che me l’hanno data mia sorella, il narratore, così poi dice c’è un altro sacchettino e ne esce un altro desiderio. Handmade homemade, la mia sorella insostituibile e bella.

tanti auguri. com’è bello far bloggare da Trieste in giù

Non so se si festeggino i compleanni dei blog. Certo che il quattro luglio poi di feste ce n’é ce n’é di più famose, perfino nazionali, di quella nazione che sta scritto in mille modi qui e a breve non ripeterò oramai più (l’ultima quando passerò il testimone a questa fanciulla qua), di quella nazione che non trovavo il passaporto per andarci. Son partita da lì dunque, un anno fa. Un anno che ha visto non tutto ma solo il contrario di tutto, un anno di quelli che chiedi al narratore onnisciente quando finirà tu dimmi quando quando quando. Quando poi capisci che devi darci dentro in ogni modo per non chiedere al narratore e basta ma segnalargli al dispettoso che anche tu sai direzioni, ecco allora un anno finisce. Ho un anno di più e qualcosa in meno: tu, cantava qualcuno. Luglio vedrai non finirà, cantava qualcun altro. Il narratore ride quando canto, lo sento, andiamo avanti

Un anno di blog. Devo confessare di averne aperto uno “scolastico” su Virgilio.it nel lontano 2005, durato poco, poi nel 2008 uno d’ammore per arrivargli, poi questo, nato per dire ai quattro amici ve la dò io l’America. E ora c’è questo, che in un anno mi ha dato per citarne alcuni ma non tutti nuovi amici, nuove vicinanze, sincere esperienze, notevoli incontrinuovi modi di vedere le cose, cementazioni di certezze, bloggiti a lieti fini. Ho un blogroll che mi ci appallottolo tutta di contentezza. Mi ha dato anche non-amici; rapporti più bruschi, rottisi ai primi passi, oppure finti, narcisi, affacciatisi per non accomodare cuscini colorati, per prendere lucciole per lanterne, per deridere dolori. Ma è tutta saggezza, dal people watching di mybisontiana memoria al people well reading between the lines.

Un anno strano. In cui guardare con occhi vecchissimi il luogo in cui vivo e riamarlo per non morirci. Amare questo luogo è sapere attraversare il lago, ieri l’ho fatto, per abbracciare un’amica che ha deciso anche lei di fare cose strepitose in questo luglio, il luglio che hai luce fino alle dieci, il luglio di cui voglio condividere la bellezza di quegli occhi vecchi, non stanchi, solo esperienti.

ps. il buon compleanno non va al blog ma a tutti quelli che passando di qua hanno voluto questa vicinanza. Che bel dono avete fatto. Una fetta di torta non ve la toglie nessuno: menta e mirtilli. L’ho inventata io, per potervi dire, mi piaci mi piace mi pià…

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in toga e cravatta

Ierisera è stato il turno del Giulio Cesare. Io che al liceo feci il francese, manco di letteratura inglese, manco a dirlo, e Shakespeare, lo conosco in modo superficiale. Troppo. Per cui leggetemi con diffidenza.

E così ierisera Cassio, Marcantonio, Cicerone se ne stavano sul palco in abito blu e cravatta rossa a dirmi quanto il passato è qui. Ma il paragone non regge: i politici di adesso non hanno sublime oratoria, ci dobbiamo accontentare dell’abito senza il monaco, ci dobbiamo accontentare di celodurismi, vitolgol’ici, smacchiatoridileopardo.

Poi però Ottaviano è arrivato da Filippi armato di pistola, calzoni mimetici e Roma bruciava nel fuoco delle granate lanciate dai black block. Per scambio di persona hanno ammazzato Cinna il poeta che con inglesismi fasulli strascinava l’accento come il cugino scemo di Dorian Gray.

Bruto era bello, non biondo, e di gentile aspetto; i sogni premonitori glieli annunciava qualcosa che alludeva al nano dietro i tendaggi porpora rubati a David Linch (ché ci scommetto: il regista, Rifici, è del ’73, lo sa cosa successe al cinetivumondo dopo Twin Peaks).

E così siamo usciti dal Piccolo perplessi. A me di questo spettacolo non m’è piaciuto solo che stavo dietro a una scolaresca coi soliti cellulari accesi. Perché a me è piaciuto bene sto Giulio Cesare, mi piacciono i pastiches. Ad altri spettatori proprio no, non è piaciuto sto Giulio Cesare. Volevano la toga (ma mi pare di sapere che già in epoca elisabettiana si recitasse non in costume). Forse gli amanti del bello han ragione. Io non sono attendibile; come classicista ho tradito il mandato da mo’.

Però mi chiedo sempre, in questi casi, quanto rida il narratore per la pioggia che sciacquò il colore dai templi dell’ Ellade antica.

Pessimismo comico (mozartiano).

Un uom adesso amate,
Un altro n’amerete: uno val l’altro,
Perché nessun val nulla.

E’ che i miei amici veri se la ridono del mio pessimismo. (fanno bene). Che una che cade da una sdraio in un prato in pendenza mentre chiede un’antiproroga al narratore onnisciente che faccia un privilegio, che le fissi una prenotazione anche se non le accetta chè io non Enea non Paulo sono, mica la puoi prendere sul serio.

Che oggi è uggia, mille cose da scrivere mi premono più del nuotare. Per esempio che il narratore onnisciente, appurato che a volte mi stupisce, però almeno faccia sparire gli uomini e popoli solo di gatti la mia vita. Almeno che. Secondo me se andassi a nuotare…

Io che a malapena mi occupo di me, che piccola me non basta ad occupare e forse sarà questo che chiamano sentirsi liberi. Chiamano.

Mi avessero perciò chiamato Despìna.

Brave, «vi par», ma non è ver: ancora
Non vi fu donna che d’amor sia morta.
Per un uomo morir!… Altri ve n’ hanno
Che compensano il danno.

Bùcine (o della domenica)

Sei ferma in stazione con un treno che da Fanculandia provincia di Nowhere ti riporterà a Inwolvesass provincia di Dovesto. Il paese te lo guardi di sottecchi, è tutto sopra la tua testa se la storti un po’. Te lo guardi e scivoli dalle sinestesie del sabato a quelle della domenica, più rare, più amare. Entri con gli occhi nelle case oltre le tende e ti chiedi come si vive a Bùcine sulla tratta FirenzArezzo. In questo aggraziato sputacchino appenninico all’ombra di un giorno che ti viene a raccontare che da qualche parte è già nevicato ma a Bùcine oggi ancora no. All’ombra dello sguardo a collo torto che vedi proprio la collinetta e le finestre delle case arroccate e te che dici “oggi ho pranzato lì, cosa ho cucinato, tua suocera che ora fa un pisolino e forse te che glielo devi dire che a breve sarà nonna ancora” E che la domenica pomeriggio è noiosa e lo sarà per sempre perchè la noia non ti si stacca di dosso a Bùcine.

Gli è che il regionale avrà poi fatto altre fermate e dopo  ci sarà l’alta velocità. Che già da mesi mi sta portando via, posto prenotato finestrino, supplemento rapido. Io ieri pomeriggio, potendo, mi sarei fermata a Bùcine. Nella domenica e nella noia di un’altra. A barattare le domeniche e la noia di chiunque altra.

P.S. mi preparavo da un mese. La aspettavo da un mese, non mi sono mossa, ogni giorno era buono. L’idea del chiuso e il bianco a diventare lieve fuori.  Narratò  tu che sei onnisciente, lo sapevi che il 28 andavo via. Mi hai fatto un altro scherzo. Il tempo di un FirenzArezzo, il tempo di incontrare degli amici e tu me la fai. Mi fai la neve mentre non ci sono, mi fai il dispettino, narratò. Prrrrrrrrrr!

ogni gatta ha il suo gennaio 3 (e di alcune prove)

Prove dell’esistenza del narratore onnisciente

che se non esistesse:

1) ora non sarei sul balcone a gennaio con quattordici gradi a correggere compiti in classe con gli occhi assolati di lago


2) MimmanonMimma non avrebbe telefonato qualche giorno fa dicendo “ti va se prendo l’auto e arrivo con una cassa di radicchio, non ho voglia di fare un cazzo, ce ne stiamo a casa, io e te e il radicchio. E così Treviso-Viadellago 355 km di sincera amicizia.

3) io e MimmanonMimma non avremmo iniziato la mattina del suo compleanno (una vera gatta di gennaio) saltando sul letto come bambine e io cantavo paolo conte e cuanta pasiòn nella vita e poi non avremmo pianto a turno ridendo delle battute dell’altra a turno che si ride e si piange in un’intera vita. Che poi non è vero che non abbiamo fatto niente.

4) Morettino de’ Latintristi  non avrebbe preso 7 in un saggio breve sul ruolo della donna tra il Medioevo e il Rinascimento e ci ha capito ché ora abbiamo un probabile ometto intelligente di donne in più.

5) mia sorella non mi avrebbe invitato a mangiare il risotto stasera con il MIO radicchio eh eh

6) non avrei per esempio incrociato la blogger Maggie in giorni incerti d’autunno, diventando invece certo che dove si taglia altro si cuce altro e anche lei ora da ieri ha la sua meravigliosa gattina di gennaio e io le invio una carezza anche se non sono là

7) mio padre al mio “non voglio tornare a scuola domani, non ne ho voooogliaaa” non avrebbe risposto ridendo “vieni che ti firmo la giustificazione, bambina”

8) la caprara vicina di casa non farebbe sempre fuoco che farei fuoco io su di lei ma oggi no ché nel prato quel profilo di scialle, grembiule, fazzoletto in testa, passo gobbo e malfermo mi è sembrato di Sud e famiglia, mi è parso nonna, quindi perdono

Prove della NON esistenza del narratore onnisciente

che se esistesse:

1) forse e dico forse ad ascoltare questa canzone del boss (http://www.youtube.com/watch?v=UIu-1rIZp0o) proprio ora non sarei sola, il sole sui cuscini si allagherebbe doppio e sarebbe una domenica come le nostre,  svegli dopo abluzioni di baci a dirci su quale lago andiamo a mangiare e invece non è così. Smettere di amare mi è tossico come per lui è salvifico. Roba brutta. Coglione di gennaio. Coglioni. Quelli che ho sempre avuto, io.

Ehllosò che le prove a favore sono di più di quelle contro. Ehllòcapito, mica son scema.

Lettera al narratore onnisciente (test di verifica di narratologia)

Sì lo so che a me mi piacciono i romanzi. E a me mi lo dico quando e quante volte voglio. A me mi piacciono i romanzi, quelli strappabudella, intensi da matti con tutto l’ammore che arriva, bussa alle finestre, poi scappa, prende l’aereo, poi lo prendi tu e vi baciate con la lingua a mulinello per ore e i sospiri com’èchedevofareconte nei parchi e nei parcheggi e le lacrime che all’aeroporto non vedi il numero del ghéit e nemmeno dove cappero stai andando in questi romanzi qui, insomma. Quelli che mica ce l’hai il lieto fine e Renzo e Lucia con la suocera intorno che smoccola e sciabatta gli fa una pippa al mio romanzo senza idillio.

Caro narratore onnisciente, tu che conosci e sei extradiegetico anche con me, io ora posso anche chiuderlo sto romanzo e scriverne un altro. Lo sappiamo tutti e due. Io posso curare meglio la fabula e l’intreccio, smetterla di ostinarmi con lo spazio simbolo e coi luoghi aperti e i parchi e i laghi e gli aeroporti, e pure con gli stati separati (anche se poi erano stati uniti). Mi impegno sulla durata, se non eccedo con sequenze dialogiche e riflessive magari la storia si semplifica e il ritmo è più disteso. E la pianto, giurin giuretta, coi flashback.

Ma tu, caro narratore onnisciente, per favore, il personaggio maschile mandamelo sbagliato (basta con la ricerca di quello giusto), e per una volta almeno:

1)  che non sguaini la spada per liberarmi dalla torre che poi alla fine non arriva in tempo perché gli cade il 3G e la torre non me la trova quello, coll’I-Phone

2)che non abbia sposato due streghe cattive e fatto figliare tutte le sorelle cesse di Cenerentola che poi quando trova a me si crede di avere Cappuccetto Rosso

3) soprattutto che non mi dica “ti lascio perché ti amo” perché io mo’ questi qua non li tollero proprio più che mi rovinano lo Spannung a furia di banalità. Fagli dire “ti amo, ti sposo” oppure “non ti amo, mi schifi e sei cretina ma c’hai due tette tali che mica sono un cogghione che lo mollo a un altro sto cuscino per la vita morbida”.

Almeno così la salviamo un poco di coerenza testuale, eh.

E tu, non fare il burlone, caro narratore onnisciente, non me ne mandare due o tre, di personaggi in cerca d’autore ché io poi non capisco chi è l’attante, chi l’aiutante e chi l’antagonista e faccio casino con le funzioni di Propp. Uno solo: convertibile come Pinocchio, onesto come Geppetto, meno menoso dell’Ortis, bello e fecondo come Charles Ingalls innestato su Johnny Appleseed. Grazie, o mio narratore onnisciente.

In quanto a me, narratò, onniscient sì ma mica fess. Lassam’ accussì. Nun ce stai cchiù nient ra ffa’ ccu mme: so’ CAPATOSTA!