Il tuo voto spesso è un tappo

Passavano, infilavano siringa di lavaggio nel tubo collegato al mio collo, chiudevano con un tappino. Tornavano, le vedevo armeggiare, le infermiere, col tappino. Il tappino restava incastrato, tiravano (marò, qui mi staccano il centrale, pensavo, mi si apre il collo), tiravano. Niente. Legavano il tappino col laccio emostatico, marò che impressione. Niente. Un tappino piccolo come un tappino di plastica. Prendevano le forbici, a guisa di pinza e forzavano le scalanature del tappino. Quando all’infermiera olandese si è spezzata la forbice per quello stupido tappino, la bionda ha detto tra sé e non sé “li han cambiati da poco, sti tappi, ora sono di un materiale scadente, a contatto con il liquido delle flebo si attaccano e non escono più, al risparmio sono andati sul materiale”.
La mia ex alunna dottoressina, passata a trovarmi qualche ora prima, mi parlava di materiali per la medicazione obsoleti, al risparmio.
Lombardia, polo ospedaliero a suo modo, di eccellenza.
Prosciugato, dall’alto.

L’alto sono quelli che non posso più perdonare, i votanti verde. Quelli che sostengono ragazzoni che vanno a fare figure di merda tra Strasburgo e Bruxelles, quelli che sostengono una rotonda ogni 300 metri di strada, quelli che hanno coperto di soldi una famiglia intera, una scuola privata con velleità dialettali e non solo nella lingua, soldi per i chupa chupas alla coca cola di qualcuno che a munger le mucche prealpine farebbe ancora bene il proprio. Che, diciamolo, se i soldi fossero piovuti alla scuola pubblica, al preservare questo bellissimo territorio, alla sanità, l’avrei dato anche io il mio tappo alle urne del sole alpino. (Minchia, piove da due mesi ininterrottamente)

L’altra sera da Riccardo Iacona, Il magistrato Nicola Gratteri con una semplicità da piangerci di gioia ha spiegato quali piccole manovre, quali semplici leggi approntabili in due mesi darebbero significativo stop alle mafie in questo paese. Gratteri e il suo dossier di 400 pagine che Letta non ha fatto in tempo a leggere, Letta. E ora sperano in Renzi. Ahahahahahahaha. Il magistrato Nicola Gratteri che lo ascoltavo e pensavo alla stessa diretta facilità di Falcone e Borsellino. Coi brividi che la parola facilità, scritta così, sappia di altro.

Ogni voto verde è un tappo. Ogni voto anche non verde è il tappo. Ogni non voto è quel tappino che chiude le flebo. Un tappino che potrebbe non staccarsi dal collo.

Com’è simpatica, questa domenica

Verde, vento, sole, analisi del testo di Petrarca, tre sufficienze fino ad adesso, mal di testa, caffé, miao e vicini di casa.

I miei vicini di casa arrivano con la primavera e passano la domenica così. Col flessibile in mano lui costruisce capolavori stagionali, come le torri Eiffel, ricordo la volta della fontana ad acqua rigenerantesi, diceva ad alta voce e non c’era milanese che non passasse di qua a sentirlo dire quanto lo consolasse il suono della fontana, fru ffru fururuu sccccccchhh, scrosc scrosc. I futuristi glie fanno na sega al milanese.

Quest’anno è la volta di un gazebo e di non so quale diavoleria di cicalino che imita il canto dei passerotti. Ecco, io dal balcone vedo bosco, canneto, lago che a notte a maggio le rane fanno bellissimi concerti e gli uccellini, ci sono quelli veri, cosa cazzo serve a un milanese un cicalino con fotocellula che imiti un usignuolo. Il Giambattista Marino gli fa na sega al milanese.

Fiu fiu fiu cipicipì. Un cicalino. Un uccello finto, il milanese.

“Cazzo sei un pirla, ti ho chiamato cento volte oggi, digli moglie a che ora l’abbiamo chiamato eh e moglie dice una alle dieci, urlando a chi urla al telefono, una alle undici, cazzo sei rincoglionito, sì siamo qui al lago come stai eh, cazzo” Terza telefonata in mondoaudizione, del pomeriggio.

Marito, è pronto, è l’urlo di quando scoccano la cena delle sei e trenta di sera e il pranzo al mezzodì di ogni santa domenica. Marito, porto fuori il cane. Urla dalla casa al giardino, due metri più in là, per sovrastare la sega circolare e il flessibile. Marito, vado in bagno.

Per fortuna alle otto di sera se ne vanno a dormire; è una giornata oggi di luce irreale, di quella che mi fa sempre un po’ male, stasera, dopo le otto, finite le insufficienze sul povero Petrarca e su quanto mi resta di scartoffie, stasera me ne torno fronte cortile, mi ascolto le rane nel silenzio dei milanesi che dormono o di quelli che tornano, me le ascolto in silenzio, con un liquorino e un sigarillo svizzero.

Pace. Sono una capricciosa della pace.

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E, la vita la vita l’è strana

Sulla verde provincia piove. Pioverà fino al tredici dicono, che se è vero, il lago esce. “È uscito il lago”, un ‘espressione comune e naturale, nonché naturalistica, da queste parti. I miei cugini di Roma, anzi miocuggìno miocuggìno, rideva grasso (il ridere, non lui) mi faceva il verso, apriva le e alla lombarda e rispondeva “è uscito il lago? È dov’è andato?”.

Dove vanno i laghi che escono?

Davanti alla scuola il delirio di quando piove, di spesso, i Suv delle mamme e dei babbi a scaricare il piccolo direttamente dentro la veranda e l’atrio della scuola. Che non prendano un goccio di pioggia sulle loro piccole teste. Hanno la felpa, nessun cappuccio, e non hanno l’ombrela. Peccato, perché la vita l’é bela basta avere l’ombrela.

Non é che a Varese gli ombrelli non si comprano perché li vendono ormai solo gli extracomunitari?

In sala professori una collega si attarda all’opre lenta di spiegare per filo e per segno come i suoi capelli diventino più crespi a seconda del grado di umidità. Mentre cerco di stampare un compito senza riuscirci perché non c’é cosa che funzioni, si arriccia anche il pc quando è umido forse, mi chiedo se lei ce l’abbia l’ombrela.

Questo blog non è una testata giornalistica, si capisce? Qui si parla del tempo, degli ombrelli.

…l’ombrela
ti ripara la testa,
sembra un giorno di festa…

Sabato, domenica e lunedì

Sabato c’è la poesia, Sereni, la Pozzi, la grandissima Menicanti, la linea lombarda, per dirla come si dice. E di sera un teatro, sostenibile, leggero, dell’essere.

Domenica c’è l’amicizia, che ti provi i miei trucchi, i trucchi dell’amica sono sempre meno verdi, del resto lo meriti, due ore con me a girare la città per trovare il giusto fard. L’amicizia del risotto, della neve che scende sui vestiti a 39 ma prima costava 93, gli sconti palindromi, i nostri, l’amicizia dell’a votare c’è tempo, domani. I lupini preelettorali, roba da naufragi della Provvidenza.

Lunedì c’è la domanda, mammaseiandataavotare, babboseiandatoavotare, sì, io no, ci vado alle due. C’è Ponci che escluso dalla domanda mi guarda dal seggiolone e impettito risponde “gììa io tono andato a votare eh”. Bravissimo Ponci, e mi dice “ora posso metterlo il tuo burrocatarro?”.

E così, momenti di essere. Mi godo la sequenza prima che lo spoglio mi spogli del sincero sentire che questa (mia) regione, neve o non neve, cambi colore

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Bar condicio (non ho nulla in Comune)

Qualche sera fa alla radio un conduttore ha zittito seppure gentilmente un musicista che parlava di politica, ma non di politica politica, bensì di cose intelligenti, civili, di cose che non vanno, di “polis”. Il conduttore a dire, siamo in par condicio, purtroppo devo chiederle di cambiare discorso. Da quando caxxo in qua parlare di futuro, di scelte e di un’Italia che ha bisogno di ricrescita ha a che vedere con la par condicio? Quel cantante non faceva nomi, quel cantante parlava di noi. Per par condicio cosa avrebbe dovuto dire, che in Italia cresce la disoccupazione ma che in Finlandia gli abeti di natale son stati bellissimi st’anno? La radio era radiorai, ci pagheremmo il canone per stare zitti, noi.

Per par condicio io però poi apro il giornalino del Comune e leggo questo, la regione in cui abito credo sia chiara, se non sarà serena non vi rasserenerà. Questa roba ho letto. Per par condicio beccatevela anche voi. E meditiamo su quanta gente ha imparato a far politica al bar, al circulin di vecc, tra un bianchino e un campari col bianco.

” Cari amici, da alcuni mesi è stato costituito il gruppo XXXX Nord Xxxxxxxx, nato dal desiderio di parlare di politica, di vivere attivamente e consapevolmente le dinamiche politico-amministrative del paese con l’unico Movimento realmente vicino alla nostra gente, sintesi della Questione Settentrionale. La nostra squadra, in linea coi principi e le indicazioni nazionali, si propone quindi come un laboratorio di resistenza territoriale per la riscoperta anche nel nostro comune di una cultura Autonomista e Padanista, un sindacato locale in grado di ascoltare e rivolgersi alla nuova classe trasversale composta da giovani, pensionati, lavoratori, piccoli/medi imprenditori del nostro comune; un’unica realtà che insieme a tutte le altre del territorio Padano-Alpino, non vuole più subire le vessazioni dell’apparato nazionale centralista! […]”

Se volete continuo. No, eh? Basta? Facciamo esegesi? Le maiuscole sono nel testo, non mie.

…nulla in Comune, con questi qua.

Solo che sta roba è dentro le teste dei miei ragazzi. Dentro a fondo. Ed esce, perché prima dell’Unità d’Italia il più bravino mi parla di una linea di demarcazione linguistica Nord-Sud. E sta roba nei libri di scuola non c’è. C’è nell’aria verde che respirano. Tacciarla di ignoranza non basta, non è bastato, troppo facile. Per combatterla, a volte torno a casa sfinita.

stoviglie color nostalgia

Mi portò a casa sua, a conoscere i suo genitori, stavamo insieme da poco, pochissimo, ed era più o meno questo periodo, novembre, quello che la gente comune da queste parti chiama “sotto Natale”, a giudicare dalla gente che ieri c’era nel negozio di superflua bellezza. Il novembre dei miei 18 anni, patente da poco, ero carina forte allora e non lo sapevo, magrina esile cascata di riccioli e quella roba lì, roba da ballare ad una festa da imboscati del liceo scientifico che io facevo il classico, lontano in città e uscivo con quelli dello scientifico di provincia (e il contrappasso che mi ha rimesso qui). Roba da ballare in una stanza vicino a lui tutta la sera senza scambiarci una parola che ero strana già a 18, io, poi quando me ne vado e solo quando me ne vado gli dico ciao magari se sabato prossimo ci ribecchiamo a una delle feste di sto giro, balliamo insieme, piacere roceresale e lui dice piacere claudio (o così ho capito io); roba che mi segue con le amiche e scrive a caratteri cubitali sulla condensa del vetro dell’auto il suo numero di telefono (l’amore ai tempi del telefono fisso). A me che ricordo ancora quelli delle elementari, di numeri, un numero di sei cifre le cui posizioni pari erano sempre zero. Potrei chiamare anche ora, mi risponderebbero sicuro i genitori di claudio che non era claudio che mi conobbero, sotto Natale.

A pochi mesi dalla guerra del Golfo, a poche ore dalle solite paure della gente di campagna del lupo cattivo, di nome Sadddam. Poi dissero al loro primogenito “l’è propri na tuseta” (esilina, la cascata di riccioli, e quella roba lì). E poi il primo esperimento (fallito) di suocera aggiunse al povero primogenito “e mi sa che è anche dall’altra parte” (perchè la regola mai parlare di politica con l’aspirante suocera mica la sapevo allora).

Dall’altra parte significava ancora comunista, per questi lombardi che son di Chiesa senza andarci in Chiesa, per quei lombardi sui cui valori bianchi, scudocrociati, di fertile produttività si innestarono da lì a pochi mesi i soli delle alpi e le ampolle del Po, del po’ di analisi che mi resta su queste terre (ma che ha fatto, interessante, Paolo Rumiz nel suo libro “La secessione leggera”)

Ierisera stavo così, come a diciott’anni. Un po’ delusa, incazzata, protestante davanti a fantasmi di neversuocere che le ho viste, con le loro tesserine elettorali, davanti a che tempo che fa anche se lo danno su rai tre. Come a diciott’anni, una tuseta che sta dall’altra parte. Dall’altra parte di quel presidente (oh toh, di nascita varesina) che è andato in tivù a dire balle, dall’altra parte di queste primarie. E siamo sotto Natale.

Io sono qualcosa che non resta…

com’era verde la provincia

in questi giorni festivi un vento boia ha spazzato la provincia, fatto volare fazzolettini dai taschini. se ne sono volati padri, figli, case ristrutturate da spiriti, santi!

alle 13.30 di domenica se ne è pure volato via anche un albero fronte cucina di casa, ne abbiam vista l’ombra sui vetri della finestra, tre sguardi che dicevano ohmamma, il rimbalzo, la caduta in strada, la corsa del vicino a controllare che nessuna auto fosse passata rovinosamente sotto il pino.

e su questi laghi è la passione dei surfisti e il vento spazzava via a sera lacrime e bucato, perché spesso così è il soldo che vale un amore ammazzato.

ché il cielo di Lombardia così bello quando è bello…

Bello come Ponciponci che entra a casa mia “cuetta casa tua, jìa?” “eigatto?” “du uè?”, si mette le manine sporche di sassi gialli sulla testa e in piena autonomia mi dice “toppo cajììno, toppo cajììno, jìa, metti a potto!”. Sgridata da un papero di 23 mesi. Ha ragione il piccolo (dopotutto abita là, nel paese che inizia con la G.) c’è bisogno di pulizia in questa provincia.

e così, soffia il vento, mutano certezze, gente si dimette, io sono dimessa da mo’, cadono fronde verdi, il verde mi è caro, la verde è carissima, ma il verde più bello di questa provincia non è mai stato il loro. Mai.

e l’assunzione di rispetto, anche quella, quelli, non l’hanno avuta mai.

essere contenti è un attimo

Basta uscire dai soliti schemi. Forzarli. Non ripetere quanto è grigia la vita di provincia e restarci attaccati come la cozza allo scoglio che fa un po’ malavoglia.

E allora si può uscire da una sesta ora con la collega Tumistufi, prendere l’auto che arrivi a Lampugnano in un attimo, scoprire che il biglietto della metro è un salasso, un po’ di verde e un po’ di rossa (forse il contrario) e respirare una Milano che quasi quasi vuol farti credere che è primavera, la baldracca.

Milano, potrei scriverne parecchi di post sulla città che più mi ha fatto male e più mi mette allo stesso tempo angoscia ed energia. Ma dovrei tornare all’università, tempo maladetto, dovrei tornare al primo amore che era già secondo in battuta, dovrei tornare al rosso tramonti d’aprile in via festa del perdono. Io che perdono sempre, anche senza festa. Non ci tornerò. Che Milano resti l’evasione, il canto di una giovinezza mai spesa fino in fondo, forse.

Io e Tumistufi abbiamo passato un bel pomeriggio. Io ringrazio lei, i tulipani di Mapplethorpe (sì, vabbè, non solo i tulipani, siamo onesti), la luce sui Navigli, la santa voglia di vivere.

L’alto varesotto (ogni gatta ha il suo gennaio)

L’alto varesotto riserva perle di inifinita beltà.

Ierinotte ho traversato un bosco al buio per salire ad una chiesetta. Ho accolto il mio mese preferito a 900 m. seduta ad un tavolo con gente di valle schietta, schiena al grande camino. Ho ascoltato racconti di caccia (zitta) e racconti di giovinezza sparsi tra fienili, bestie, doppiette e dogane. Ho stretto mani in cerchio per pregare il Padre Nostro e l’Orsa Maggiore che mi carezzava il capo. Così, respirando, lui è arrivato.

E’ arrivato mentre Lugano se ne stava immobile aperta ai miei occhi lontani puntellata di fiori d’artificio. E’ arrivato alle tre del mattino mentre le mie ginocchia instabili caricavano passi lenti tra le foglie e i sassi, inutile ché son finita uguale di culo a terra. E’ arrivato mentre scendevo sul sentiero al buio e non ne avevo paura. Mentre la torcia che avevo sulla fronte faceva un piccolo cerchio di luce a terra e io mi divertivo a direzionarlo intorno per fingere di vedere (cinghiali). E’ arrivato che non faceva nemmeno troppo freddo ma con l’odore della promessa che lo farà.

E ora che finalmente sei qua, sei per me. Ti vivo, gennaio.

N.B le foto non sono mie ma trovate nel web. E ahimé non sono notturne.

e poi il buono che c’è

L’aria frizzantina di alta Lombardia che mi entra nelle narici e mi dice “sei a casa”, finalmente.

Chiudendo il capitolo Roma, devo dire del buono che c’è, anche nella stanchezza di un’esperienza faticosa, forse inutile. Il buono che c’è di solito è a tavola ma il vero buono che c’è sono sempre le persone, sono gli incroci di vita.

Sono Liliana, Maria Grazia e Rodolfo che hanno diviso l’appartamento con me, e hanno diviso un sacco di risate, di ironia sull’ammore, hanno diviso la pastasciutta e l’acqua calda. Hanno condiviso quell’aria di Palermo che amo già da tempo.

Sono le blogger, le prime che incontro, da zero. C’è destinazioneestero con la quale avevo deciso di sentirmi prima, previo scambio di cellulare, per un caffè dopo le prove. E invece mentre ero seduta al banco della fatidica prova di francese mai fatta sento al microfono suo nome e cognome, la chiamano al banco della commissione, la seguo con gli occhi per vedere da dove spunta, ed eccola, è seduta quasi a fianco a me. Se ci fossimo messe d’accordo, si sa, non sarebbe successo.

E poi c’è Roma, che chiusa all’Ergife non avevo visto nemmeno un po’. La complicità e la spontaneità viva e cordiale della mitica vvnvvvn, (spaventata dall’ipotesi che me tornassi a casa con la sola idea di Roma carrozzona), è stata preziosa per rimediare; via di appuntamento al Culiseo (strano, quella sera la metropolitana era perfino funzionante ahahahaah) e mi ha portato a magnà in un posticino molto carino, cioé qui:

Qui dove non ho lesinato su fritto e su carciofi, invece sì sulla frolla con ricotta e ananas perché forse avevo un attacco di appendicite in corso (o di ipocondria, secondo il gestore del locale, eh eh che però la ricetta non me l’ha data). E grazie Vvnvvvn perché se ora il desiderio di gustarmi la città eterna in altro modo ha fatto capolino è grazie a te e alla schiettezza con cui hai accolto, in fondo, una quasi sconosciuta.

“che la conosci? no, vado a prenderla tra 10 minuti e la conosco, no?”  :))))))