Tutto il giorno sto con una scimmietta e un cavallo bianco

Tra quelli che poi ieri han scelto il telefono per farmi gli auguri, e devo dire che c’è stata questa carezzevole inversione di tendenza per cui no feisbuc, no solo uazzapp ma tantissimi che dicono “che diamine, la voce” tra cui quelli splendidi che proprio non ti aspettavi quanto bene, allora se sta inversione di tendenza fosse un must un trend, dai va bene e tra questi a un certo punto mi sembra di riconoscere il numero della filiale della mia banca. Mia in senso improprio, eh. E mi dico “carini vah la banca che carini pure loro mi dicono magari non solo auguri ma un regalo, che so, un mese gratis di servizi” e invece no, il compassato impiegato dice “son pronte le sterline”
Già, son pronte le sterline.

Che io da mesi la mattina ascolto in streaming una radio londinese di notizie, giusto per avere nell’orecchia i barbarismi e due giorni fa sta radio diceva “dentist” e “minnesota”. Ora, va bene che io quando ho imparato l’inglese, semmai sia davvero successo, due delle prime parole eran proprio “minnesota” e “dentist” e sto blog ne fa fede, ma mi son detta tre cose mentre ascoltavo, 1) che sono scema 2) che non capisco l’inglese 3) che c’ho un’ossessione. Fatte salve tutte e tre che son vere, era vero pure che dicevano “dentist” e “minnesota” e poi anche “lion” ho capito e che non dicevano al mio segno zodiacale. Meno male che c’è feisbuk quindi, quando non in inglese, ho capito tutta la storia. Del cacciatore e degli articoli in cui tutti ora cacciano e vogliono linciare e sfanculare un dentista del minnesota. 
Ehh, ci siete arrivati tardi, ma join the club. 

Certo, quello che ho in mente io al limite era un cacciatore di sgnappera e non ancora a pagamento, però, poarell.

Ma quel telefilm datato quasi quanto chi vi scrive, con l’orfanella petulante e lentigginosa, con quella luce a picco, pieno di pirati, bambini soli, a voi non inquietava? Brrrrrrr, a me sì.
La gatta, gatta semianaffettiva sostenuta e pure nu poc zoccola ieri notte ringhia da dietro le persiane, si fa aprire, salta sul letto, si aggancia alla coscia e un minuto esatto la fine dell’impasto al copriletto sento tic, tichetic, tichetichetac e arriva la grandine e il diluvio universale. Beati quelli che capiscono cosa sta succedendo con almeno un minuto di anticipo. 
Da villa Villacolle è tutto. Baci.

l’illuminazione (sulla via di Duluth), più che altro una scossa.

Il mio primo albero di Natale, dopo otto anni in questa casa.

L’atmosfera era giusta, ieri. Nelle casse Bob Dylan, insieme a Joan Baez nel 1964. Quella voce inimitabile del menestrello di Duluth. Così con il filo delle lucine cinesi in mano mi accorgo che oggi non c’è neve ma ce n’era tanta, sulla strada per Duluth. Una strada bellissima, guidata bene. La neve.


E mentre sto sulla strada per Duluth infilo le lucine nella spina e perchèdiamineogginon vannocheieriinvecesì. E le tiro, e le smanazzo  (with God on our side) E mentre sto sulla strada per Duluth, in due secondi ieri ho visto le lucine cinesi che schizzavano sul pavimento. E io ferma, con una mano ferma, pulsante. Un attimo a capire che ho preso la scossa. Tutta la sera col dito rigido e i brividi. E con Silvestro che poi controlla che c’è un filo scoperto tra le lucine e dice ma tudevistareattenta, tu.

Oggi, ho cambiato le lucine, le ho comprate nuove, con campanelle e fiocchi rossi. Oggi dopo l’illuminazione (con me servono sempre le maniere un po’ forti) sulla strada per Duluth, cambio anche strada. Il lago odora di neve e le Alpi Piemontesi hanno voglia di ricevere, come me.

Born to be al live

Live music. Musica dal vivo. Il più possibile, grazie.

Allora mi si dice qualche sera fa “vieni a sentire una cantante folk americana al solito localino?” Certo che sì. Andiamo a sentire Carrie Rodriguez.

Eccola nel suo splendore, nei suo riccioli scuri, occhi di luna e rossetto corallo (mmmh, idea buona, perché non uso mai il rosso corallo sulle labbra?).

Eccola lì con la sua voce calda, il suo violino, il suo duo. Piacevolissimo come le parole ad accompagnare le canzoni.

I racconti di Austin, delle sue origini messicane. A metà concerto racconta “I grew up in Texas bla bla bla”, poi presenta il biondino che suona con lei “He grew up in Minnesota (mmmh?), do you know where (iesminkiaies), bla bla, the top of the country, bla bla, frozen bbbrrr (iesminkiaies), and fishing, yes ice fishing e fa il gesto del fare buchi nel ghiaccio” (eccallà). 

A parte lo sguardo degli amici e la battuta “se ti mettevi il tuo felpino dell’UMN ci scappava pure un cd gratis”. A parte che me lo stavo pure mettendo e poi mi sono detta ma sempre in tuta devo uscire, facciamoci carina talvolta.  A parte che maledizione a quando ho imparato l’americano (era meglio vivere nella mia ignorantità, direbbe my dad). A parte che Cazzo, ma gli Stati Uniti non sono cinquanta? Cinquanta, non tre, sette, al limite tredici. Cinquanta. E se sei una messicana del Texas, trovatene uno del Colorado, no?

E così, mi vengono in mente i miei cd raccolti nella mia estate live music appena trascorsa, cd che non me li sono portati in Italia perché erano la base di una “nostra” discoteca ( e intanto facevo liste per la cineteca, per la biblioteca etc etc) e nemmeno me li sono masterizzati su pc perché non ce n’era bisogno, perché “tanto ritorno”. E questa sono esattamente io, quella che butta la monetina nella fontana, quella che in riserva non fa benzina pur in vista dello sciopero, quella che “sono nata per vivere sul filo del rasoio” Sì, BORN TO BE ALIVE

Pane, coso lì e fantasia (non mi viene la parola)

Con una settimana di ritardo sulla Giornata Mondiale del Pane, ma io nemmeno sono così titolata per festeggiarla giusta, arrivo anche io. Oggi ho estratto dal frigo jetFlag, sembra esanime, finito di scrivere dovrò trovare una soluzione. Il mio lievito madre ne ha viste delle belle quest’estate: voli clandestini, farine gnucche all-purpose, nipoti ventenni atti al rinfresco, abbandoni…insomma. Tuttavia, jetFlag mi ha permesso di recente ancora qualche buon risultato. E oggi ve lo mostro.

La ricetta che seguo è questa: uso circa125 grammi della madre, con 20 grammi di olio, 320 grammi di acqua tiepidina, 1 cucchiaino di miele, 500 gr di farina (150 farina 00, 250 grano duro, 100 semola) , 2 cucchiaini di sale. Faccio sciogliere la madre nell’ H2o insieme al miele, inserisco farina e sale, mescolo, impasto col cucchiaio di legno poi trasferisco l’impasto sulla spianatoia e lavoro con pollici, nocche, e così via per 15 minuti almeno. Faccio il panetto, i due tagli e lo copro per circa 3 ore, quando lo riprendo, lo piego a libro, riformo la pagnottella, la mollo lì per tutta la notte e a lievitazione terminata la inforno per 50 minuti. Il risultato non è sempre standard perché le mie procedure e le mie dosi non sono mai uguali; sto ancora sperimentando tempi e modi, non ho ancora molta confidenza con la madre.  Che soffre nel mio frigorifero, malgrado l’abbia abbassato al minimo e soffre anche del fatto che vorrebbe essere usata più spesso e invece io la trascuro. E ora il risultato, di quando il pagnottino si è sposato con l’ultima confezioncina di marmellata Wild Blueberry and Pomegranate from Maine, per una colazione che non è mai avvenuta (coso lì, nel titolo, non mi viene la parola). Ora però la dedica: queste foto sono per Stefano, gli ho detto qualche giorno fa che gliele avrei mostrate. Tralaltro ho scoperto che questa settimana non se le è passata benissimo e voglio pensare che in poco tempo tutto sarà a posto e lui, insieme alla moglie Cara, ci darà altri notevoli segni della  bravura nel tenere alta la bandiera della cucina italiana in Minnesota. Lo potete trovare qui: http://duespaghetti.com/ andate a dare un’occhiata, ne vale davvero la pena. E se non fosse stato per lui, jetflag (the sourdough) si doveva accontantare di farinaccia.

Ora vado, buona domenica a tutti; vado a dare un bacino a jetflag e a tutto quello che è di me, del mio modo di fare, di fare… coso lì, quella parola che non mi viene.

L’altro ringraziamento va scientificamente allo scief che un giorno ha spezzato Lazzaro perché volasse.

coso lì, non mi viene il nome: http://www.youtube.com/watch?v=q9M2rgSTA5g&feature=related

ore 18.13, lunedì.

primo giorno di scuola e primo giorno di io so cosa, che già ad essere sicura che sia un primo giorno di un nuovo calendario non sarebbe il primo giorno.

ore 18.14 ho solo l’ispirazione per entrare nel web, comprare un biglietto aereo, guadagnare altre miglia e tornare a Saint Paul.

Torni a casa? Come dove perché li avevo, mi bastava quando.

Tu dimmi quando, quando…

ore 18.18

Ma chi se ne food!

Parola di italiana media, quella che viaggia con la moka legata al collo con catena d’oro. Ma chi se ne food. Giro di ristoranti, in America se spendi molto mangi bene. Se spendi poco guidi attraverso, ed è divertente sto drive thru che parli dentro a una specie di bancomat ma i soldi li metti, non li prendi; e dopo passi al casello dell’autostrada e dal finestrino la tipa non ti dà il resto ma le tue patatine fritte, il cheeseburger e la coca cola. Quel giorno, totali due pantaloni su due, unti di salsa che fa sciak quando mordi guidando.

La prima cena è al Butcher Block, ristorante italiano, dove un simpatico Stefano, romano, mi aiuta ad ottenere l’introvabile farina di grano duro tramite Cossetta (un famoso market italiano, per me ancora da vedere). E sempre Stefano ci fa assaggiare la pajata – no, io no, non mangio interiora, no io no, la pajata in Minnesota no-, e sempre Stefano è l’autore di un delizioso blog a quattro mani con sua moglie Cara.

Il giro nei market può continuare tra Lund’s e Kowalski’s, scaffali ordinati, puliti, eleganti e prezzi alle stelle. I neri e gli obesi non li vedi qui, li vedo scendere in midtown, li vedo entrare da Subway, oppure dal solito McDonald’s dove per pochi dollari in questi giorni è riscoppiata anche la Puffomania. I puffi, do you remember?

E ancora, un giorno, mi si dice, vieni, ti porto in un posto. Un market enorme, per entrare lascio le narici a decantare un odore impossibile, avanzo a rilento, – non fare facce, mi dice- ma l’italiana media è diventata un’italianazza integerrima davanti alle vasche lunghe pareti, piene di astici vivi, uno sull’altro, schiacciati. Povere bestie. -ammore, me ne metti nell’ acqua bollente una stasera?- scordatelo ammo’, io non ammazzo per fame. Ci muoio per fame, piuttosto. Bottino del deluso: tre carnosi frutti rossi, a suo dire, buonissimi. Li mangio e ci metto due giorni a capire che non ho un urgente bisogno di colonscopia ma solo di restare ferma sui miei propositi di purezza della razza di cibo che mi fa mangiare. (ops, ora ricordo: a brooklyn, il primo sushi bar, lo possino, con quel pesce morto anni prima, lo possino).

Cibo, cibo, quanto ne vuoi. Si chiamano food court i distretti del cibo. Per averne uno mi basta scendere nella skyway: ho il mio preparatore di insalata preferito, un ragazzo di Saint Paulermo, che mi ha riconosciuto dal primo incontro, a dicembre, e che si sforza di prepararmela all’italiana. Tacchino, pezzi di pane tostato, salsa di yogurth. Che ve ne pare? Che non si dica che non sono aperta di mentalità.

Sì, cibo e amici. Ho mangiato da amici greci, uno tzatziki da urlo, fatto in casa, e tante cose in comune. Mia faza mia raza, anche qui, a minnegrecopolis! E per non dimenticare, la cena la sera successiva,  al garden of saloniko, in Uptown: mi era rimasta voglia di moussaka!

Ma la mia vera passione è il puré, lo sanno tutti, la parola d’ordine è mashed potatoes, possibilmente garlic: il migliore è sempre nei ristoranti americani tradizionali. Saint Paul non mi tradisce: in una villa vittoriana, la sera del mio compleanno. Ubriaca fracica, (ancora non ho capito come e perché), perché soprattutto non ho chiesto la doggy bag per quel fantastico puré.

Finisco: Sto facendo il pane in casa, ho fatto una frolla pere e cioccolato che avremmo voluto non finisse mai, il risotto con pere e fontina, la carbonara. Voi direte, beh che c’è di strano? Che ci riesco nonostante il contenuto del frigorifero dell’ospite.  Una magia, ragazzi.

Sono italiana, ma chi se ne food!

Happy Days (ovvero esistono e ballano lo swing)

Ma i più belli, i più belli sono quelli che sai di aver visto nei film. L’italiano ha la capuzzella piena piena di quei loro film, di quelle loro facce, di quei bar lunghi e stretti con le panche foderate di pelle color tamarr-indo, di quelle musiche che pare siano arrivati ieri – con il cioccolato- gli anni cinquanta ( e quanto mi è sempre piaciuta la canzone che lo scrive così bene che “l’ascolteranno gli americani che proprio ieri sono andati via con le loro camicie a fiori”?).

Ecco, di locale in locale, di esibizione live in esibizione live, li vedo.

Prima il cantante con la voce di Tom Waits, venticinque anni a sembrare ironia, poi la mitica Davina and The Vagabonds, a suo modo una celebrità da queste parti. Una ragazzona dal sorriso di pianoforte, che lo suona muovendo il culo che pare muova il cielo d’America. Che però quando le compro un Cd me ne regala un secondo perché forse è felice di avere una fan in Italia che la segue sempre su Facebook ed è la terza volta che la ascolta; che però mi saluta fermandosi di suonare e sorridendo un “bye” mentre esco dal locale.

Lo stesso locale in cui fermo il quadro più bello. Un uomo sui 75, forse 80. Alto, dinoccolato, bello quanto doveva essere bello e giovane quando indossava la stessa camicia a fiori, i pantaloni, le scarpe bianche, il panama sulla testa. A far girare sulle articolazioni secche, ma memori perfette dei passi da fare, una biondina-da-college, la vicina di stanza di Olivia Newton John, tutta smorfiette e allegria.

Mi sono piaciuti da matti. E da giorni mi dico: sì gli americani esistono, e ballano lo swing.

se non passerai per la cruna del lago…

Acqua d’estate. Riconoscerli, i laghi, non è stato semplice. Il verde, le tartarughe “acquattate” nei punti da non navigare, le canoe e i kajak che ci voleva un vigile a dirigere il traffico, i ragazzi a tuffarsi dal ponte sulla strada, i 37 gradi all’ombra, il gelato che lo devo proprio assaggiare il gelato americano magari al gusto caramello salato che gli dei minnesotani me ne scampino.

E lei che rema, altra novità. Anzi finge, per la foto, per la gloria del blog.

A dicembre fino dall’atterraggio, era tutto bianco. Tutto bianco di ghiaccio. Di neve. Mi piaceva di più, lo devo ammettere: mi sembrava meno Angera, meno Maccagno e via dicendo.

Mi piaceva quel silenzio ovattato, quel Minnesota da cartolina. Il mio amato signor inverno.

Per far contrasto ho quindi aperto un romanzo svedese, ambientato nel lungo e bianco inverno svedese, un romanzo ironico, a tratti grottesco sulla vita e sulla morte, di quelli che mi catturano fin dalla prima pagina. Perché nella prima pagina il protagonista racconta di come, tutte le mattine, fa un buco nel ghiaccio. Il sottotitolo del mio blog. Così, sotto il ghiaccio sottile, si stabiliscono nessi stagionali, di vita romanzata, di vita d’acqua. E io sono qui a decidere se dall’inverno all’estate sarà davvero un buco nell’acqua.

ps. il romanzo, per dovere di cronaca, ha titolo “scarpe italiane”, l’autore è Henning Mankell, l’ho acquistato su IBS a 2, 95 euro. Consigliabile, consigliabilissimo.

La citazione nel titolo del post è giocata su una canzone di un sempre splendido Roberto Vecchioni.

(inin)fluent english

Riassunto delle puntate precedenti: a causa del suo inglese inadempiente, durante i suoi due precedenti soggiorni nel Minnesota, la nostra Liz aveva avuto pochi contatti con i locali. Degno di nota solo il ragazzone che le aveva messo un tovagliolo bianco della colazione davanti agli occhi per mostrarle cosa avrebbe visto al nord, “Ely in Winter”, un po’ risentito, of course, del fatto che non trovavo così divertente la sua idea alternativa di fare 5 ore di auto con un audiobook per andare a vedere le teste scolpite nella roccia in South Dakota (o North? boh).

Oggi: l’inglese inutile ma non timido della nostra protagonista la fa lanciare in improbabili conversazioni con improbabili personaggi. La parrucchiera di Dinkytown è ormai mia amica, le scrivo le mails per ringraziarla di tutte le indicazioni post-turistiche datemi (incluso il nome della birra che avrei dovuto assaggiare). L’autista del bus sorride calma quando le chiedo – è pericolosa quella enorme densissima nube nera che si è formata in soli 4 minuti e ora staziona proprio qua dove devo scendere io? – oh yes, storm!- storm or tornado? – oh, yes maybe tornado. Stica (trad. this dicks! )

ps. tralascio il fatto che ormai capisco quasi alla perfezione le vecchie puntate di Friends e quasi molto del David Letterman Show e questa è la cosa che mi rende più felice. Ah ah ah.

Posto da blocco

“oh, sì tra tre blocchi!”, “ce la fa a camminare per tre blocchi?”, queste le indicazioni. E allora cammino, il mio appartamento si trova là dove Robert st. si incrocia con la 4st. Facile: è un reticolo di strade che formano dei quadrati. Lato più lato più lato ed ecco il perimetro delle mie peregrinazioni. All’ingiù la 4, la 5, la 6, la 7 strada. A destra e sinistra Wabasha, Minnesota, Robert, Franklin. Davanti, il Mississippi. Dietro lo State Capitol. Nel centro di Berlino non si perderebbe neanche un bambino, canta Lucio Dalla. Nel centro di Saint Paul (perdonino: in Dowtown Saint Paul) mi perdo io. Perchè l’est e l’ovest non hanno più senso, esco da un punto e come brava sono solo io per ri-raggiungerlo giro tutti i tre lati. Che sciocca, era di qua. Che scema, ero di là. Quando va bene, circumcammino tutto il blocco. Quando va male, mi blocco.

Poi guardo all’insù, le nuvole, il vento, il cielo è chiarissimo sulla punta del mio naso e del mio grattacielo. Lui gratta il cielo, io mi gratto un po’ il culo e ricomincio a camminare.

p.s. Oggi in ascensore una gentilissima signora anziana con deambulatore, quando sono entrata, mi ha detto che avevo un ottimo profumo, e io – è francese- e lei – di solito mi fanno schifo ma tu profumi di buono, ragazza, e io – have a nice day – e lei – honey, che sia la tua una bella giornata. HONEY, mi ha chiamato honey. Fa tanto bene, prima di un blocco.