ti vuoi tutta pizza e bufala?

ti svegli alle cinque del mattino, sudaticcia che lo capisci che è cambio di stagione, dagli uccellini che fanno concerto che nemmeno in un’ode di D’Annunzio, cipicì cipicià, quanti cazzo sono cipicì cipicià. Che è meglio vah che vivi in Italia e non in Amerdica alla fine sennò oggi andavi al supermercato e ti accattavi una pistolina un fuciletto e pam agli uccellini, cipicì cipicià.

Cinque del mattino, intrisa di sudore, dici, perché sì, sbagli, torni a dirtelo, l’insonnia, il sudore. Sarà la meno pausa. Meno male, dici, una pausa. Dici. Cipicì cipicià.

Perché il mondo si regge sulla bufala, l’amore è una bufala. Che so, come se mi venissero a dire abbiamo visto Dr. Vival’IVuGì in una foto sorridente di famiglia, piena di bimbi sorridenti, tutti felici. Che se me lo venissero a dire, maddài, fammi il piacere, è una bufala. Aivoglia a ridere se la vedessi davvero una foto così con Dr. Vival’IvuGì in un quadretto di famiglia.

Cipicì cipicià. Una bufala.

La mattina dopo, se anche fosse vero, tornerei a vedere le cose come stanno.

Come stanno?

Stanno tutti bene.

Stanno che è davvero cambio di stagione, che ho trovato in rete una frase che dice che non siamo colpevoli, ma solo responsabili. Mi è piaciuta, sta frase.

Poi no. Perché io sono stata irresponsabil, altroché e dottor vival’IvuGì è colpevole. Si facesse, si fa per dire, tutte le foto sorridenti del mondo con miliardi di figli già fatti acquisiti sorridenti del mondo, lo stato di minchia(na)polis gli istituisse un premio apposito di father of the century.

La mattina dopo, lo sapresti, che la foto sta negli occhi di chi la guarda. E chi la guarda la vede la macchia.

Io che scambiai per amore un passatempo, io che mi bevo ogni bufala. Anzi la mangio, che pizza. Che pizza, ancora. La bufala sulla pizza fa acqua. Da tutte le parti. Ecco forse l’insonnia, il sudore.

L’indomani lagennara si svegliò lagennara.

Si sente che è cambio di stagione. La stagione della bufala viene e va. Sono stanca, che pizza.

il padre dei fratelli La bufala.
il padre dei fratelli La bufala.

 

 

anniversari controversi

Ci sono giorni che batteranno il tempo sempre, e arrivano impietosi, puntuali a ricordarti, a scandirti. Si affievoliscono però, almeno nel dolore o nell’incomprensione e così cambi l’aggettivo, non sono più anniversari avversi come l’anno scorso, stesso giorno, non li copre più il segreto di un post protetto da password, esiti perfino, fino a qui, di volertici fermare ancora, a segnarli i giorni. Lo fai, perché scrivere serve a questo, a procedere il tempo. Io dubito fortemente che la vita mi vedrà alle prese ancora con quanto di femminile mi è stato dato e tolto in un batter di ciglia, in un volo d’aereo; dubito fino ad averne sentore certo, che certe seconde occasioni non passano più ma gli anniversari controversi son come quando ci hai pensato e lo sai che non capita ma se ricapita non piangi non piangi non piangerai più ma riderai come una pazza, mi piace pensare che riderei del ridere di Sara quando seppe di generare Isacco. Per cui la seconda puntata dello Shuffle, e una muta promessa di altri aggettivi senz’altri anniversari. Per cui:

19 settembre 2012  ovvero Cose da donna

Ho cominciato a sognare cose da donna su un terrazzino liberty ombreggiato di glicini. Avevo dodici anni,  sarebbe stata l’ultima estate senza mestruazioni, ascoltavo le canzoni alla radio, lanciavo un pallone al chiuso del pergolato e sognavo l’infinito di cosa e chi sarei stata da grande sull’infinito di un lezioso e aperto pianoforte. La canzone alla radio, di quando non sapevo l’inglese, diceva pressappoco così:

“Everytime you go away, you take a piece of me with you”

A 12 anni sei come carta moschicida, ti resta appiccicato addosso più di qualcosa, qualcosa sì qualcosa no. Ma non a caso. Se in una canzoncina ci senti il tuo infinito.

Quando poi l’inglese l’ho imparato, giocoforza, a trentott’anni quasi, “Everytime you go away, you take a piece of me with you”, quando ogni cinque settimane gli dicevo è come se mi spezzassero un braccio, amore, all’aeroporto e lui, amore, a dire, devi razionalizzare “Everytime you go away, you take a piece of me with you”.

Se io avessi una figlia di 11 o 12 anni oggi (ma non ce l’ho), non le farei ascoltare musica, non la farei crescere tra i glicini, non le farei leggere “il piccolo principe” nemmeno in regalo nemmeno in inglese, al massimo la porterei, al massimo, al museo della scienza e della tecnica ogni sabato.

Alla lunga, sulla lunga distanza, gli aridi vincono e razionalizzano.

Vigliacco

Stasera non dovrei scrivere, dovrei restarmene qui in balìa del concerto di Battiato alla radio, in balìa del mio sentirmi viva, pulita. Ormai tanti anni fa,  un uomo che diceva di amarmi, dopo qualche mese dalla fine della nostra storia, mi comunicò via sms di essersi innamorato di un’altra donna, lo fece con una caduta di stile incredibile, sottintendendo che lei, quella nuova, valeva la pena di una scelta che con me non era stato il caso di fare.

Non ho alzato la testa per tre anni, tre anni in cui ho studiato, ho avuto l’immissione in ruolo, ho visitato Cuba, Creta, la Slovenia, la Grecia continentale, Londra, Berlino, Parigi, Monaco, una miniera di amici. Ma nessun uomo, nessuna carezza, mentre sedimentavo informazioni su chi fossi, come amassi, cosa volessi.

Poi arrivò Massimo, arrivò che avevo ancora l’eco di paure, le misi tutte sul piatto, sii te stessa, sembrò capirle tutte, lucidò l’armatura celeste e il filo interdentale, lanciando al galoppo il cavallo bianco. Scriveva amore con la a maiuscola, come quello di prima, usava il condizionale nei verbi, come quello di prima. Ma non volevo far pagare al secondo il prezzo del primo. Forse. O forse è che son semplicemente una stupida.

La stupida era nervosa in questi giorni, non capiva perché, sentiva qualche minaccia lontana, a volte le capita. Sono giorni di luglio strani, giorni forieri di cattive notizie, giorni in cui si mescolano la vita e la morte, giorni in cui quasi compiere quarant’anni ti fa capire che non c’è più nulla da capire. Che il meglio è per sempre alle spalle.

Ho i tempi lunghi, invidio le persone che ricaricano le pile in fretta, che si aprono ai sentimenti, al sesso, velocemente, segnando meglio il ritmo di questo cammino avaro. Io non sono così, lo so da tempo. Lo sai anche tu, Massimo. Ma questo non ti ha impedito di scrivermi oggi per avvisarmi, come quello di prima, che sei di nuovo innamorato (good for you), della donna “della tua vita, una donna che ama senza chiedere, senza condizioni”. Lei sì che ti ama, potevi aggiungere.

Insomma, diversa da me (per fortuna, e la fortuna è tutta mia) ché a me sta cosa di amare senza chiedere e senza condizioni mi sa tanto di quando si finge di accontentarsi di scopare per ore e di farsi portare a cena al ristorante costoso contente del luccichio del cazzo e del portafogli (pardon, della passione e della bella vita, volevo dire).  Sai che c’è? C’è che sono orgogliosa di NON amare senza chiedere e senza condizioni.

E che non so se da domani questo blog chiuderà, cambierà nome, cambierà almeno password che sono stanca di digitare l’indirizzo dell’appartamento in cui mi è stato chiesto molto e mi sono state dettate condizioni. Non lo so da domani che accadrà.

So che ora finalmente qualcosa non accadrà più e che quando è accaduto l’ho fatto accadere nel modo giusto. E ne sono felice. Dubito che leggerai questo, Massimo che ti dovresti chiamare Minimo, ma se dovesse succedere, non leggere tutto, lìmitati al titolo, per te è fin troppo.

ci sono cose

ci sono cose che stanno lì, ad attenderti.

arrivano con un colore definito, con la musica che sai, monotona, rassicurante come noioso e garantito è certo country americano. Non puoi sfuggire.

arrivano che il caffè ha già sciolto il fior di latte e quello che avanza lo berrai amaro come valesse un fioretto fatto per osmosi.

arrivano che ronzano le api, che il glicine ha ceduto e tu mentre scendi le scale i fiori e le api ti sfiorano i capelli ed è un solletico che nemmeno senti alle sette del mattino (il mondo è ancora in ordine).

arrivano il giorno che altre scale portano maggiore fatica ma te ne freghi, le occhiaie ci hai comprato il cosmetico figo, per immaginarti appena un po’ più bella se fingere equivalesse ad abbellire. che lo sai che non lo è.

arrivano, instruiscono il vallum, ti assediano le budella per una manciata di secondi, il tanto che basta a vincere la guerra e si fanno parola. si fanno spedizione all’altro mondo. sono cose che non t’importa più se hai vinto o perso. Cose che cancellano verbi passati. una manciata di secondi, la nostalgia si fa dolcezza.

la fiducia nella vita aveva il tuo taglio d’occhi, amoremio. scrivo tutto minuscolo.

Aveva. Oggi ha il mio. taglio. occhi di un castano pieno, occhi meno stretti, occhi che ci sono cose che non guardano più.

piccoli momenti

Ci sono piccoli momenti, come questo, che stai strizzando il cencio della cucina ché si è rovesciato il barattolo delle acciughe sott’olio sul pianale del frigidaire e ci hai messo il cencio. All’acquaio con acqua di quella bollente e lo sgrassatore strizzi il cencio e dici, come una lama che ti entra in cuore, ma cosa sto facendo, se questo è il senso di una vita, strizzare il cencio e pensi ma vorrei esser morta.

Ed è un piccolo momento seguito alla telefonata veloce della veterinaria che ti ricorda che la vaccinazione di gatta sta per scadere e tu metti giù il ricevitore e pensi ma non era solo gatta che avrei dovuto vaccinare, quest’aprile. No. E di nuovo la lama sottile.

Un piccolo momento come un amico non tuo, acquisito da lui, ti scrive e ti dice che gli uomini dovrebbero imparare a vivere il presente, senza agganci al passato o progetti di futuro. Cosa è il presente? è questo cencio strizzato? è prendersi cura solo di un gatto?

Ieri, un piccolo momento, prof, ha un momento mi chiede Pollyanna che di solito tace dietro le sue efelidi. Non ce l’avevo un piccolo momento ma mi sono fermata per lei, lei che così studiosa ha preso quattro nell’analisi del testo su Tasso: era il discorso antimperialista di Satana nel quarto libro. Ma Pollyanna non ce l’ha fatta, studiosa com’è, a dirmi che il diavolo ha ragione a scagliarsi contro Dio. E ieri mi dice che si sente in una teca di cristallo, si sente un’ingenua e ora come fa a uscire contro il mondo. Io me la sarei abbracciata in quel piccolo momento, dietro le sue efelidi.

E’ in un piccolo momento come questi che il mio uomo decise di lasciarmi andare. Lo so. Un piccolo momento fatto di una sera a incontrare alunni, a incontrare per caso persone che non incontravo da tempo e che quella sera spuntavano a dire da quanto tempo, che bel ricordo, che bello saperla, magari ci vediamo, mi manca. Poi da soli, una passeggiata nel buio, lui che piange e mi dice non dirlo mai più di essere una persona inutile, guarda cosa lasci alle persone, guarda il bene che sei, il bene che fai. Ma io per questo ho bisogno di fare questo bene a qualcosa di mio, di nostro. Ti dissi lascia che questo bene che sono sia da domani un bene madre. Un piccolo momento in cui il domani fu un risucchio di Supernova.

Un barattolino rovesciato, un cencio unto e strizzato; per il 21 marzo giornata mondiale della poesia non riesco a fare di più.

E questa è la Merini, non è la mia preferita, anzi. Ma non riesco a fare di più

GENESI
Vorrei un figlio da te che sia una spada
lucente, come un grido di alta grazia,
che sia pietra, che sia novello Adamo,
lievito del mio sangue e che risolva
più quietamente questa nostra sete.
Ah, se t’amo, lo grido ad ogni vento
gemmando fiori da ogni stanco ramo
e fiorita son tutta e d’ogni velo
vo scerpando il mio lutto
perché genesi sei della mia carne.
Ma il mio cuore, trafitto dall’amore
ha desiderio di mondarsi vivo.
E perciò dammi un figlio delicato,
un bellissimo, vergine viticcio
da allacciare al mio tronco, e tu, possente
olmo, tu padre ricco d’ogni forza pura
mieterai liete ombre alle mie luci

di nuovo (di niente)

La gatta è di nuovo al pronto soccorso gatti, anestetizzata. Stanotte non sentirò il suo puff felpato nel piumone e sono le abitudini piccine a mancare; lo spazio vuoto sulla destra è un’abitudine più grande. Non conta.

C’è vento gelido stasera, non posso stendere però, la luce del ballatoio è di nuovo fulminata, al buio non riesco

Di nuovo c’è che sono stata a teatro a sentire Toni Servillo leggere i Mémoires di Goldoni. E ho fatto un tuffo egocentrico nella mia infanzia ché a 4 anni leggevo e scrivevo anche io, non scappavo in barca coi commedianti. L’ho imparato da grande, quello. In aereo, coi commedianti.

Il mio dolcissimo nipotino ha di nuovo la febbre. E parla il piccoletto, di vecchio dice “meddimi dù” “vieni dù” e di nuovo dice “tlota” “luccio no” “jiiìa”. Amore della jìia.

Sono di nuovo davanti a questo pc invece di affrontare di petto (suvvia, che mi costa) gli ultimi sedici saggi brevi degli Indeponenti.

La vicina di sotto dai rumori al momento credo abbia di nuovo un fidanzato o surrogato.

Tra sei giorni è di nuovo Natale. Grazie, amore, grazie di niente. Di nuovo, niente.

La lingua nel limbo (1462 giorni)

Tra color che son sospesi.

Persa tra qualcosa che vorrei dire e invece no. Le ricaccio indietro le parole, come si ricacciano indietro le lacrime, non tutte: quelle di delusione, quelle che scivolano dignità.

Allora scrivo. E poi cut cut cut. Come le sue presentescions, che alla fine vanno stringate. E mi stringo io, ma è diverso da quando mi stringevo vicina. Ho imparato a stringermi lontana; mi sveglio di soprassalto che quasi cado dai bordi.

Io lo so che tutte le parole non dette tra noi sono sempre uscite, sì, uscivano, uscivano a prendersi il caffé, a farsi il lungolago, sprizzavano senso e facevano lago-Midwest-lago in poche ore, allagandoci di comprensione puntuale. Ma ora ho parole più nuove: no, non parlano gocciole e foglie lontane ma di una favola bella che oggi m’illuse, Ermione, di quello parlano, sì.

Sono sospesa con la bocca e con l’anima del tutto simile alla matitina di Skype, che la vedi che balla, traballa e scribacchia un Flower e un Hug ma poi mentre attendi che posi, che posi le parole, crolla stremata. E tu dici “no, daccapo, ti prego, daccapo”

Stasera vorrei una carezza sui capelli, di vecchia data (la carezza, pure i capelli). Vorrei la restituzione di una lingua, non questo esperanto buono per tutti. Stasera vorrei litigare ché non è mai stato possibile, da sola mi stavo a litigare ché la gara finiva sempre all’ironia chi la fa per primo se io se tu, l’altro faceva la ratio. Stasera vorrei leggere, ad alta voce come su spiagge liguri. Stasera vorrei la speranza perché anche la parola nel limbo è innocente ma è nata troppo prima del vero.

durante

Scrivere durante.

Non è semplice. Di solito si scrive dopo un qualcosa. e quel dopo darà la misura della distanza, dell’ironia che sappiamo metterci tra noi e il vissuto.

Stasera faccio un esperimento. scrivo durante. Durante 50 km da percorrere (no, non da me, non so scrivere guidando, anzi di base non so nemmeno guidare e basta). 50 km che potranno portare a me o lontano da me. Come una specie di gioco se in gioco non ci fossero i miei stessi sentimenti.

La pretesa è quella di ingannare l’attesa, di ingannare il tempo, lo spazio, la scrittura che, come diceva Starnone, non è mai un atto d’amore. Di ingannare me stessa per farmi trovare dalla scrittura mentre si busserà o non si busserà alla mia porta. Tra 50 chilometri.

Scrivere durante, Anche se poi non dura niente. Dura, solo la testa. Come el sass sarasin. Ora i chilometri saranno già meno. Il dolore domani sarà meno. Meno male.

Durante. E dopo:

battuta di classe

che poi parlo sempre dei Latintristi e i poveri fanciulli di quinta, prossimi all’esame di stato (quando ho promesso loro di tirar fuori il burqa dall’armadio e di negare per sempre di averli conosciuti), ecco quei poveri Indeponenti, di forma passiva e di significato inattivo, non li cito mai.

Invece sabato, al termine del solito tiriterone dal tono catastrofico di questa me depressa che si trovano come docente, al termine del solito annuncio dell’arrivo delle cavallette, la piccola Indeponente Garrula mi dice “prof, io all’esame mi presento con uno specchio in mano” (silenzio). Così se qualcuno mi chiederà “è per la tua tesina?” io risponderò “No, l’ho portato per potermici arrampicare”.

E così Indeponenti-Shealmoslong 1-0

p.s. quasi quasi confesso alla piccola Garrula Indeponente che Shrek non mi sposerà mai (più) così la faccio tornare triste e passiva (pare ci tenesse a presenziare a tutti i costi al mio matrimonio. “Prof è bello il suo fidanzato?” “Sì, Garrula, dicono somigli un po’ a Shrek”). Mi sto arrampicando sugli specchi anche io, per pensare il meno possibile al mio cartone animato. Abbiate pazienza.