Mezzaluna

Guidando nella sera già oscura, che scende all’equinozio, pensieri quieti, spazi di introspezione. La sera in cui chissà quanti bambini, piccoli, dormiranno leggermente agitati, per andare incontro a quella cosa nuova che tutti gli hanno chiamato addosso scuola.
Anche PonciPonci sarà tra loro, Ponci che ha visto il grembiule e ha detto “io quel coso non me lo metto o me lo metto per andare a pescare”.
Silenzio, da sola, un’emozione presa a prestito la mia.

Non mi dimentico di me, mi è stato chiesto se talvolta mi sento sola, da sola. No. La mia paura, al limite, per indole, è quella di perdere di tenerezza, spiegavo a Namica, giorni fa, che a mancarmi è solo l’esercizio della tenerezza.

Nella notte prima del primo giorno di scuola, per i bimbi della parte salva del mondo, e per me.
Silenzio e la canzone che spesso dimentico essere per me la scoperta della tenerezza.
Mi riaddormenterò e ricomincerò a sognare.

Di venerdì

Non sai bene come stiano precipitando le settimane, è sempre venerdì.

Il venerdì poi ci sono quelle tre ore consecutive in quinta.

Questa quinta bistrattata, chiamati bifidi attivi in terza e poi quasi mai narrati, questa terza e quarta e quinta di zavorrette corte, faticose, tristi, tenaci, dure, non fatte proprio per le arti.

Son partita a razzo, di venerdì, con loro e con Baudelaire e Verlaine e avete mai ascoltato almeno Rimbaud di Vecchioni? E poi Carducci che non c’entra molto e che mi piace, sapete, io voglio io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito. Sì, vero, poverini, ho detto che non lo avrei fatto Carducci e ora come faccio, ne scelgo poco, dai. E poi su Pascoli, sapete, chiù, e su quell’altro capace di starci mesi, sarei. E quest’anno niente pioggia nel pineto, chi vi interrogherà agli esami, s’arrangi, si studi il meglio. Eh, ma ho dimenticato Campana. Chi è Campana, ridevano i porelli, di venerdì. Ma Campana non posso non farlo Campana.

Tullìolo mi guarda e dice “prof, quando fa così, è buffa sembra una mamma di quelle in negozio che vedono una cosa e dicono beeeelllla ma subito ne vedono un’altra e dicono beeeellla”

Tullìolo ma come? La mia passione per i poeti trasformata nello shopping compulsivo della media casalinga?

Tullìolo ride, io anche, qualcuno dice “prof, è un abbassamento comico”.

In questa quinta bistrattata, chiamati bifidi attivi in terza e poi quasi mai narrati, questa terza e quarta e ora quinta di molte zavorrette corte, faticose, tristi, tenaci, dure, non fatte proprio per le arti. Lo so, si saranno sentiti sprezzati terzogeniti dopo i due figli belli e grandi.

Lo so, uno splendido venerdì, e danno quel che dai.

 

 

 

Come da rituale

Come da rituale, ho scelto un mio dress code allegro, fiorato, stavolta significativo il doppio perché dono dell’amica e (finalmente ancora quasi su una quinta, ih ih) collega Noise, ho sfidato la coda delle Moms on the Suv di tutta la provincia allineate sotto la pioggia, sono entrata in tre delle quattro classi assegnatemi quest’anno, ho pure già spiegato Manzoni e fissato una verifica per mercoledì.

Poi, come da rituale siamo andate a pranzo fuori, sul lago, perché ho chiesto loro se avessero per caso voluto condividere con me questo mio rituale.
E mentre, sedute, usciva perfino di nuovo il sole, ho pensato che quattro professoresse un po’ amiche un po’ sconosciute, un po’ colleghe della stessa scuola, un po’ no, un po’ di ruolo un po’ ancora assurdamente precarie che han detto sì al mio rituale, possono essere bellissime, il primo giorno di scuola.

Straordinario

Che poi si finisce così. A chiedere di essere pagati di più. Per fare ciò che si è chiamati a fare ordinariamente. Solo perché qualcuno non lo fa, l’ordinario e viene pagato, appunto e non lo fa. E a chiederlo a chi non ricopre esattamente il ruolo di decidere chi deve fare e cosa. E pagare per.

Ai miei ragazzi, spesso, correggendo i testi argomentativi, faccio notare che il “si” impersonale è tale perché si è appunto, impauriti di dire chiaramente chi fa cosa.

Su facebook (per cui anche nella vita) imperversano analisi politiche improntate al qualunquismo più sfrenato. E io invece ci cazzeggio. Che i leghisti son cacca, il berlusconismo ha sdoganato il peggio, ma la vera colpevole è la sinistra, questa sinistra che ci ha portato il degrado. Nessuno si senta escluso, insomma.

Però. Io, dalla profondità del mio cazzeggio, io oggi qua, una cosa (seria) la aggiungerei.
Un paese è soggetto a cambiamenti, ovvio. Io conosco una sola via per fermare quel che viene letto come degrado. Ma degrado di che? E da quando? (sto leggendo Pasolini, mi tormentano le domande, pazientate.) E se non fosse degrado ma un percorso, uno dei tanti, (non utopico che l’utopia uff, che facile)? Credo fermamente e, credendo, esercito, questo: che il cittadino si deve sporcare le mani nel pubblico. Non solo nel lavoro. Ma nella partecipazione, dall’andare in consiglio comunale al consiglio di istituto della scuola dei figli…a tutta la partecipazione statale possibile.
Non so definire quando l’italiano abbia smesso o se il mio osservatorio personale e familiare è limitato quando ricordo che mio babbo così faceva, la mamma pure, io, i miei compagni di classe, gli amici dei miei genitori, i miei vicini di casa, etc etc. Mia sorella no (è stata prodotta negli anni ottanta: conta il conto?).
Però ha smesso, e così addio, distacco dalla politica, eliminazione della partecipazione. Annullamento differenze destra e sinistra e centro.
E anche dire però la sinistra almeno ha tenuto bene sulla cultura. Ma la cultura non basta se non è condivisa e non si fa motore di partecipazione.

Il mio osservatorio poi, da qua, provincia che si intuisce, avvisa che le giovani generazioni di prossimi votanti hanno una bella impostazione teocratica. Non distinguono ciò che va dato a Cesare e ciò che va dato a quell’altro là.

Che un dsga si lamenti con me del fatto che “su 2000 genitori solo 43 siano intervenuti alle elezioni del Consiglio di Istituto” e si lamenti con me del fatto che io faccia politica. E che ogni volta che un collega commenta un mio intervento in Collegio dica “le tue idee non sono sbagliate eh ma la vedi in modo politico (?) io mi dico “avanti avanti avanti”.

Nei giorni pari ci credo tantissimo a quel che provo a fare insieme ad altri (pochi). Nei giorni dispari chiederei lo straordinario.

Mezzo grado di separazione

Da questo balcone con vista sull’acqua, dove da marzo ricresceranno le chiome degli alberi e il lago sparirà a poco a poco. Esco poco, chatto troppo, lavoro male.

Da fogli sparsi, per la raccolta della carta, è venuto fuori un elenco di nomi, alunni nel 2000, ai nomi associavo ancora i visi, non tutti, e dicevo “e questo? e questo?” Eppur dimentico.

L’amico, Chiamiamolo Così, CC (una delle due C sta per cachemire, l’altra è invece di sostanza) mi chiedeva anche perché non parlassi mai della mia università, lui che una parola su tre è “Bocconi”. Perché voglio dimenticare, da statale.

Così la finestrella di messenger che si è aperta in quel momento, – in quel momento quale?- diceva solo “quasi mi dimentico di dirtelo, ho interrogato una tua ex alunna”.

Quale? Una ragazza, capellidirame, l’hai avuta solo al biennio, latino. Tre minuti, e l’avevo davanti agli occhi, la ragazza, no che non dimentico.

E mentre Noise mi riporta meglio il dialogo, e mi racconta che la fanciulla quasi capotta dalla sedia a sentirmi nominare, penso al sentirmi nominare ora “come cara amica”, proprio in quel posto lì che dimenticherei, e Noise deve averlo capito cosa intendevo, ridendo e dicendo “silvas doces resonare Roceresalem”.

E poi le cose serie.
Noise scrive “buffo però”.
Sì, buffo, ma pensarci al come e al perché ci siamo incrociate e conosciute mi mette sempre di buon umore e qualcosa in più che non saprei dirti, senza retorica.
Perciò non te lo dico.

Ed è partita la faccina.
Cià, Noise, un giorno di questi mi devi offrire un cappuccino in via Università.

Palestra di vita

Che l’ultimo sabato di scuola prima delle festività natalizie  ci sia la festa, appunto, di Natale, è notizia che viene accolta nei più disparati modi; da un uffa, perché non la lectio brevis e tutti a casa; da un ecco, il solito casino; da molti quasi quasi chiedo un permesso, vedrai quelli con la 104; passando da un ma la circolare oggi è già giovedì dov’è la circolare ufficiale; fino all’arrivo dell’a me che me frega tanto ho il sabato libero.

Poi tu che non ce l’hai e non lo vuoi, il sabato libero, ché la libertà è proprio un’altra cosa, in palestra ci vai, che sei di sorveglianza. E li vedi, li ascolti cantare, li guardi saltare, danzare, presentare, uscir di timidezza. L’istituto Durocome è grande parecchino ma conti che a muoversi sono i tuoi, che hai tre classi, in fondo, ma quelli sono soprattutto gli alunni tuoi. No, non c’é determinismo, Roceresà, non è che son bravi perché sei brava te, figurati, peffavòre, anzi ti dici “ma guardali sti sguaiati, latino niente eh, ma va che artisti”. Li senti, un paio ti commuovono pure, e resto a bocca aperta da quanto son bravi.

Spiegaglielo tu ai docenti che han chiesto il permesso, a quelli che si son imboscati al bar, a quelli che han parlato per due ore consecutive, attaccati alla finestra, di scuolascuolascuolacompiticompitivotivotivotimaluisìmaluiperòigenitoriahigenitori. Spiegaglielo cosa hai visto e sentito. Chi sono i loro (anzi, i miei) ragazzi. Spiegaglielo quanto ci han tenuto a che li sentissi. E quanto è importante che tu sia in mezzo a loro.

In quella palestra lì.

forte sempre più forte come fosse l’America

 

Avere a scuola per un progetto di scambio una collega giovanissima, americana.

Poterla avere in compresenza, previa progettazione didattica da consegnare a giugno.

Vedere a settembre tutti i progetti definiti con “contenuti da definirsi”.

Conoscerla per caso, piacere sono Brenda, e sentirsi dire “ah, tu sei quella del progetto sulla comedy, molto bello, dunque son felice che è proprio il mio lavoro di tesi”

Rivederla e chiacchierare, piacevolmente che io di colleghe con cui parlare di Nora Ephron e di Bill Hicks non ne ho molte.

Riincontrarla e parlare di flipped classroom. E lei ha venticinque anni, vive a New York e studia italiano e ora insegna in una scuola italiana. E sapere che io non ho più venticinque anni e porto i capelli come Susan Sontag e lei mi dice “wow conosci anche lei” (vabbé questo perché conosco in verità la cara Noise)

E così Brenda parla con me di Gramsci anche e mi chiede perché le persone con cui sta lavorando al Durocome non sappiano chi sia. E perché i ragazzi non sanno cosa sia l’HIV. E tante altre cose.

Io le dico che molte sono madri e mogli approdate all’insegnamento solo perché insegnare permette maggiori libertà di fare la madre e la moglie e poco altro loro importa, certo non di leggersi Gramsci la sera; le aggiungo che al Durocome anni fa seguii io un progetto di educazione sessuale e alla salute boicottato fortemente da chi ritiene il sesso un tabù. E da CL (ma questo non gliel’ho detto, non avevo voglia di spiegarglielo né in italiano né in inglese).

Sono contenta; Brenda mi ha detto che a Bologna, dove è stata a insegnare, non è così. Io le ho detto che a Bologna ho il mio parrucchiere di fiducia e lei mi ha risposto che a New York ce ne è uno famosissimo che tratta solo i capelli ricci, un luminare, che te la cavi con 300 dollari per un taglio.

Mi sto affezionando parecchio a Brenda.

Ricevere

Due mamme in coda al ricevimento in un’altra classe “Professoressa, la stavamo aspettando, volevamo solo salutarla, abbiamo i figli minori adesso in prima, peccato non riaverla, magari in terza speriamo”
(Intanto penso che in una classe prima ne manca una oggi, manca al conteggio all’improvviso, manca alla vita, manca, maledizione e si leggeva sui visi e nella normalità forzata)

Al ricevimento, il mio. “Professoressa, grazie, Pierino è contentissimo di averle dato una mano col podcasting delle lezioni”
“Professoressa, Gigetto è cresciuto tanto in questi anni, è maturato, adesso mi fa certi discorsi che lo devo spegnere, quasi, e ci chiede di leggere i libri che legge con lei per poterne parlare con noi”
“Professoressa, Ventodi(sup)ponente sta matteggiando, provi a parlargli lei”
Alla fine del ricevimento, la collega, un buonumore ben assestato.
A casa penso “ora scrivo a Ventodi(sup)ponente” e non faccio in tempo a pensarlo che sul canale telematico un messaggio di Ventodi(sup)ponente mi chiede “prof posso parlarle un giorno di questi?” Sì.
E tra gli altri messaggi anche tre dei Latintristi “prof, allora per la nostra prima cena da lei, io (Bromur a nome di tutti) verrei prima ad aiutarla a preparare.
E tra gli altri messaggi i tre palindromi -di altra meravigliosa piramide- anche in una chat divertentissima in cui fissavano la cena edizione di dicembre senza nemmeno consultarmi “prof va bene anche un brunch”.

Auff nemmeno il tempo di stare a grattare il paiolo, qua. 🙂

Che strano mese di sìvembre, denso dentro ai no d’acqua.

La professoressa mo’ mo’ mentre scrive è sdraiata sul divano, ad intermittenza fissa il soffitto un po’ in fissa e vede qualcosa che si muove. Striscia. Sottile bianco. Se è un cagnotto, n’ata vota, devo rifare il giro delle farine e scovare il nuovo covo. O convincere il ragno nell’angolo opposto di andarselo a prendere lui.

Il rientro

Rientrare a scuola dopo due mesi senza sapere bene quanto e come volessi rientrare. Chiedere a un’amica, cosa mi metto. Sapendo che il vestito scelto aveva due significati, uno per alleggerire, l’altro per alleggerire.
Rientrare a scuola dopo essermi sentita vecchia perché una volta ero io la giovane supplente e adesso era lei la giovane supplente a dirmi “ho imparato di più in un pomeriggio a lavorare insieme che in due anni di TFA”. Rientrare a scuola dopo aver constatato che la mia supplente ha fatto cose belle che io non so fare più, che all’entusiasmo dei primi anni ho sostituito un più veloce spendibile pallore metodologico.

Rientrare. Essere accolta dai colleghi che mi vogliono bene che in due mesi si sono fatti sentire e vedere ed essere abbracciata, bentornata. Essere accolta da colleghi che non mi vogliono nulla e correvano a baciarmi con l’odioso bacio a guancia lunga senza guardarmi negli occhi ma dove la curiosità morbosa li guidava. Faccedachiulo.

Rientrare nelle classi. Quelli di terza, che finalmente, posso ribattezzare i Bifidi Attivi, a guardarli come sempre, cercando di capire come fare che questi non li prendo. In prima, indifferenza un po’ sì un po’ no, segno che al biennio metto meno, di anno in anno, e me ne duole.
E poi prendere la strada dell’aula dei Comeback, essere fermata sulla porta dal bidello Coca “perché non ci sono tutti in classe”, non rispondere il tanto ovvio “embé?quando mai?” E, per aver subdorato qualcosa, fingere di avere una cosa importante da fare in segreteria così da arrivare in ritardo.
E rientrare. Con loro in piedi, una pianta sulla cattedra, un cuore rosso disegnato sulla Lim e uno scroscio di applausi.
“Dunque, gli applausi aspettate di farli davanti al feretro, per la pianta ho il pollice nero mi spiace, se volevate commuovermi no, davvero, ho avuto cose più serie per cui piangere”. Il tutto detto sardonico. Così Ventodi(sup)Ponente ha potuto dire “adesso sì davvero Bentornata! Le piace il carciofo rosa pungente che abbiamo scelto per lei?”

Roceresale la mattina dopo si è destata roceresale, pareva già di non essermi assentata mai.

Oggi il pomeriggio è passato al vivaio a scegliere il vaso giusto, il bastoncino giusto, il nastro adatto per salvare Ryan, il carciofo rosa. Ché Svanito, chi altri mai, quando ho rischiato di entrare in classe e non eran pronti, ha fatto scatto felino per coprirla col suo corpo e l’ha quasi rotta, la pianta del carciofo rosa.

Salviamo il carciofo Ryan

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Comizio

A breve vedo uno scenario in cui io, eroe della militanza inquieta, sarò allontanata dal lavoro perché brutta sporca cattiva scomoda fino a questo punto arrivano le epopee autocelebrative nei sogni ad occhi aperti, quelli in cui ti viene riconosciuto qualcosa, sul lavoro, almeno lo sporco, se non il cattivo.
Invece a breve vedo se alzo gli occhi al cielo dei cagnotti passeggiare indisturbati sul soffitto, maledetti. Mi metto a piangere per un nonnulla, se poi questo nonnulla è invertebrato e produce mosche blu aficionadas dell’ammerda, e se è solo la quarta volta che metti a soqquadro tutto, consumi candeggine, butti paste e farine, ecco se poi.
Invece vorrei lavorare correggere, appena prendi in mano le versioni ecco che la grandine, il vento, la prima neve, un black out di quattro ore, e buonanotte.
Così poi glielo dici agli alunni come si finanziano le reti di scuole, quanto prende un bidello per non lavorare dalle 11 alle 13, stracci le fotocopie errate fatte “per cortesia”, prende come te, vediamo quanti giorni ci mettono a pulire, ma poi di peggio glielo dici perchè loro la lim non l’avranno e ancora quando ventodi(sup)ponente te lo chiede perché a ravenna c’hanno il mac. Glielo dici che se voti lega e anche certe destre non puoi avere il pubblico dell’emilia romagna. E glielo dici, di peggio, quanto ti senti brutta sporca e cattiva. E che ne hai piene le palle di non poter lavorare come vorresti. A breve vedo uno scenario in cui prima o poi me lo fanno un richiamo, la dirigenza, o al limite qualche famiglia blasonata dal sole delle alpi. Il giorno dopo di grandine, vento, ontani abbattuti, black out, esce sempre il sole delle alpi.
Intanto li vedo, ragazzi scrivete i compiti sul diario, li scrivo qui alla lavagna, che scemi siamo. Guardali questi, come li capisco.
Che se continuo a pubblicare cose di questo tipo prima o poi la sporca brutta e cattiva la identificano come niente. Portatemi le arance.

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