Marta e il lago

Intanto, nelle settimane che si rincorrono, c’è stata anche questa nuova esperienza, nuova, prima, ultima e data per fallimentare nell’agenzia delle mie personali scommesse 44:1

Lo sapeva solo una persona che l’avrei fatto, almeno fino al giorno prima, quando poi i più vicini tutti a dirmi “che bello, brava”. Che bello brava un paio di palle non lo potevo dire, che non è sempre peccato andare sentendosi laudare benignamente di quel che l’è vestuta. Ma sapevo che l’unico a capire sarebbe stato giusto Silvestro che prima domanda “a che ora è posso venire e poi dice no no, lo so, ok non ci sarò” seconda domanda è “ma sei sicura”. No, che importa.

Che non è stato scrivere la storia, ci sono voluti sei minuti e mezzo, la storia è come se ce l’avessi avuta lì da sempre. Premeva per uscire. Forse per il sorriso, per i capelli fermi come il lago. Anche provarla, registrarla su un file audio, modularla, immaginarmi le espressioni, i gesti, in particolare quello a indicare la vena, la varice sulla gamba.

Sapevo chi avrei portato sul palcoscenico; una che al limite faceva la suggeritrice da dietro le quinte alla sorella timida che sul palco era un leone, una che al saggio di canto “bella voce ma non puoi cantare con la testa incassata nel collo con la voglia di sparire”, una che alle assemblee sindacali piuttosto che il microfono usa il pennarello sulla lavagna di carta, una che di timido non ha nulla, strano, però.

Il file audio più carino si è inviato alle “ragazze della cucin Continua a leggere “Marta e il lago”

Ogni anno la stessa storia

Sto impacchettando il regalo per Silvestro. I biscotti son pronti da ierisera. La confezione  mi metterà alla prova, è grande, io con carta e forbici son imbranata come quando alle elementari la maestra diceva beh, lascia stare, roceresalina, leggi e basta, te. La confezione è grande, il regalo lo abbiam pensato in due, io e Namica. Io e Namica che si è gentilmente invitato Silvestro ad organizzarsela da solo la festa, stavolta. Certo, la dritta per dove andare a cena son finita a mettercela io. Ci sarà una nota teutonica.

Nel biglietto che accompagnerà il regalo, insieme anche ad un libro in tema, ci sarà scritto, se entro le otto riuscirò a finire di impacchettare quel santantuono di regalo che il commesso mi guardava impietosito mentre uscivo dal negozio, e mi metterò a scriverlo sto biglietto, ecco ci scrivo

“Con gli anni, ancora, dirsi spesso che pizza che siamo, come pane quotidiano”

Ma son passata a fare gli auguri anche a delle blogger speciali

A Pendolante

e anche a lei e leiovunque siano là fuori dalla blogosfera.

Per loro un biscotto!

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Rifletto sull’esistenza come il piccione, ma il mio sulla panchina ci ha…

…scagazzato.
Vuoi non andarci a vedere il film che ha vinto il Leone d’oro? Vuoi non portarci anche Brenda, la cara ragazza Brenda e pure Silvestro quello che oramai presento a chi non lo sa “lui è quello del cinema”?

Come si scrive la recensione di un film come questo: vademecum (e anche un po’ vaderetrum).
Si prendono aggettivi quali “onirico” “grottesco” “surreale”, li si mettono nel mixer con “geniale” e “visionario” riferito al regista e ci siamo quasi.

Il film l’ho capito eh, che critica la guerra, che critica i tic di connessione dell’homo sapiens, e lo fa con intelligenza, però io, che sono abituata e amo i film cortocircuitali e i pezzi di teatro interminabili e barocchi, io ho fatto fatica a digerirlo il film. Brenda ridacchiava, Silvestro era dai tempi di Lars Von Trier che non andava a comprarsi la coca cola con la scusa del caldo e mi chiedeva indietro il prezzo del biglietto che peraltro, Silvé, ho pagato io, caccia la grana, pliis.

Però mi è piaciuto lo stesso, che son storta, come con gli amori, più l’uomo è indigeribile più mi piace lo stesso e da qui, come dai film, nascono un paio di problemini seri che tenteremo di non risolvere, tanto, che tento affà.

Nella claustrofobia di una Göteborg gialla, nel trascinarsi dei disadattati protagonisti, di valzerini monchi a contrasto, tormentoni telefonici, di re capricciosi e checche, il film di Roy Andersson è un inno alla vita, cammeo dopo cammeo, vita che si affaccia alla finestra, che si insinua tra le porte chiuse, fa le bolle di sapone, il solletico sotto ai piedi del bebé.

Insomma alla fine sull’esistenza rifletti e sì, sono tanto contenta di sapere che state bene, sì ho detto che son contenta di sapere che state tutti bene.

Con questo post faccio da spalla indegnamente ai LUNEDÌ CINEMA di Iome

In contumacia

Aveva un po’ di malmostosite in questi giorni, Silvestro, forse una forma seria di desiderio di mille altre vite possibili, un’irritazione da -anta e passa, una moscerìa portami via.

Così io e l’altra, nemiche amatissime, ci si può unire e dire “pizzetta, Silvestro, mercoledì?” E di nascosto indaffarare per avere al tavolo un sacco di altre persone. Che dicono sì, ci siamo. Festa a sorpresa per Silvestro, iuppi ià, non dite niente, Silvestro non lo sa.

Silvestro a metà pomeriggio dice “non ne ho voglia, non sono in vena di festeggiare, facciamo un’altra volta”… Scambio di uazzappi allibiti. E tu hai pure prenotato una torta ai funghi di meringa in pasticceria, peso netto chili due.

La tattica per incastrarlo poi arriva, ma va sto tizio che è vent’anni che mi complica gli affari semplici.

Ore 21.05 da cinque minuti siamo qui riuniti per celebrare e tu non arrivi. C’è pure Amario che ogni tre anni ci fa dono della sua presenza.
Ore 21.07 ci portano l’acqua, così per gradire. Ci sono Gnoccauno Gnoccadue che ti vogliono elettricista.
Ore 21.09 “no, non viene” e tutti a redarguirmi che mi metto a ordinare il giro pizza. Cioé non viene, chemmifrega, io mangio.
Ore 21.10 uazzappa una di noi “parto adesso dalla palestra” mentre chi era in palestra con lui siede da dodici minuti al tavolo.
Ore 21.19 non è possibile, non troverà parcheggio. Grazie, lorsignori, auguri, gridiamo tutti auguri, Silvestro che non c’è, questo è un compleanno in contumacia

Che sono esperienze eh.
Dopo questi anni di blog, ogni ventinove ottobre è un piacere scriverti ancora auguri, è una bella storia che attraversa i tempi. Fatti una grappa importante alla mia salute, e un pianto come da tradizione sul biglietto che parla di noi.

Ah. Ierisera, poi, alle ore 21.25 Silvestro, in concomitanza con le prime tre pizze, entra con l’aria annoiata di chi si aspetta svogliato solo due persone. Ne vede all’improvviso quindici, trasecola, si blocca, si porta una mano al petto, in gesto di stupore.

Poi lo prendiamo tutti in giro e il giropizza e la festa hanno realmente inizio.

Kölle Alaaf (Semel in anno…

…licet limonare)

La storia cominciò nel salone, elementari dalle suore, innamorata di due, Fabio, bruno bello e tenebroso, Giuseppe, biondo, curioso e intelligente. Giuseppe veniva da Cassina de’Pecchi, lo diceva il paese più bello del mondo e io non sapevo dove fosse ma lo immaginavo pieno di fiori. Giuseppe possedeva un caleidoscopio che mi mostrava; i miei genitori l’avranno odiato Giuseppe, per aver dovuto cercare in tutta la retrograda provincia un coso che come si chiama quel coso. Io sognavo un paese pieno di fiori dove i giocattoli erano bellissimi.
E di baciare uno dei due, di più Fabio.
Due bimbi con una tuta rosso blu elastica e aderentissima. Vestiti entrambi da uomo ragno, finirono, ragioni sconosciute, a rotolare sul pavimento e darsele, prendendosi il castigo delle suore. In quel salone enorme. Strani giochi di memoria ché quando facevo il ginnasio, ebbi a rivederlo, il salone, solo una stanzona.

Scollinare e attraversare la frontiera, che c’è ancora una frontiera, douane, zoll, nel cuore delle terre. Attraversare la frontiera, lasciare il paese dove il Natale è la festa dei bambini, il Carnevale è la festa dei bambini, e l’otto marzo è la festa delle donne, quelle che forse almeno una sera lasciano a casa i bambini, surrogati e proiezioni di feste che gli adulti non vogliono più permettersi.
Attraversare la frontiera, Medusa che si veste, infilarsi nel fluire di persone dai 20 ai 60 anni, tutti mascherati, il paese chiuso e riempito di musica. Dieci stand al chiuso e all’aperto, le maschere a ballare, ridere, conoscersi, non avere barriere, il re è straccione, non farti fregare dal cardinale.

Tesserete, una delle pievi della Capriasca, diocesi di Lugano, carnevale Ambrosiano. Io, che è evidente, sei vite su sette, su tutte, una donnona grezza di Colonia. Kölle Alaaf! Kölle Alaaf! Kölle Alaaf!

“Medusa, Medusa, a me il Carnevale mette da sempre voglia di limonare e con gli sconosciuti, per giunta” “se è per quello la voglia di limonare con le sconosciute, io ce l’ho anche di martedì alle otto e trenta, per dire, Minnie”

A metà della storia ci fu una festa che mi fidanzò quando mi tolsi la dentiera di dracula, ma alcuni giorni dopo che me la tolsi. Perché invece la sera stessa, davanti alla palestra, finii a limonare per cinque minuti, di fretta con dei pungenti occhi blu, e volevano portarmi a un’altra festa (da cos’era mascherato, non ricordo così come non ricordo la maschera del fidanzato di qualche giorno dopo). Né Fabio né Giuseppe.
Però ricordo il viso dell’occhioglauco, come fosse ieri, strani giochi della memoria. Pulitemi la Ram.

Dovere di cronaca obbliga a dire che a metà della storia l’anno dopo, la ragazza, vestita da fragola, ingombrava gli spazi, si ri-fidanzava al ritmo di una jazz band; da cos’era mascherato stavolta lui, non ricordo, la sorella però sì, un vestito da dama veneziana, roba da teatro, noleggio ad alto costo. Io che il collare del frutto l’ho fatto con la carta crespa. E lui doveva mettere anche i dischi, nelle pause del nostro limonare. Solo Fabio o solo Giuseppe.

A Tesserete c’è intanto entropia, Medusa e gli altri, si è scelto di stare all’aperto, gli svizzeri hanno il senso di cosa ballare, Silvestro ad ogni brano chiede che anno era, cos’era, scommettiamo, laif is laiv, hai ragione, prima, prima dell’ottantotto, ho perso i 20 franchi dell’ingresso?

Alla fine della storia, da confessare, la personale perversione: gli uomini vestiti da donna. Collant, tacchi, rossetto sbavato, sono spesso belli, ambigui e seducenti (che c’entri il Bosé di Almodovar? non saprei). Alla fine della storia, me ne arriva uno vicino vicino, mi fissa negli occhi con le mani si sventola, fa aria a un décolleté da far invidia, da far invidia perfino a me. Sospira il suo Rouge Lancôme (Boudoir Time 185N, a occhio) me lo sospira a tre centimetri dalla mia, di bocca. Sospiro e chiedo la ceretta com’è stata. “Uhhhhhh” urlacchia la mia priscilla e lo lascio andare, niente, non è più tempo di sconosciuti, e di limonare.

Balliamo…” Daiiii, questa canzone, Medusa, ma che titolo ha?” “Mah, Pappaparaparapara pappaparapà”

Alle quattro del mattino, riattraversa la frontiera, non senza una benzina, alle cinque ho le orecchie da topo un po’ storte, che quaresima cominci.

Crisalide o lagna. Però se magna.

Stamattina un collega, stanco, due chiacchiere. Che la risposta più difficile è sempre quella alla domanda “come stai”.
Che si sa, si va dall’ironia rassegnata del riciclo dei soldati e delle foglie d’autunno, allo stare come si sta, come te se ti scappa da ridere.

La risposta. Non sto né bene né male, sto come una che trascorre il tempo per passarlo, non so cosa rappresento, che senso ho.
(Lagna), si può commentare, non mi offendo. Il collega risponde “la fase della crisalide”.

Bello, dico, così quando poi esce sta caxxo di farfalla, tutto sto casino per vivere un giorno solo, che poi magari te lo danno d’ottobre e manco voli nell’azzurro.

(Minchia che lagna). L’avrà pensato.

Vent’anni fa festeggiavo il compleanno per la prima volta (tengo il conto qui e qui) del buon Silvestro, che in sti giorni gli vorrei dire un sacco di cose, anche non belle, a tratti gliele scrivo, poi cancello, paio una lagna, una volta gli scrivevo poesie, ora non mi restano che cuciture, gli vorrei dire che non amo quando passa del tempo con me guardando sempre il cellulare, che con altri non lo fa, gli direi anche che quando punto i piedi sembro aver torto, o parlerei di bugiette bianche, da maschio, ma che le bugie sono l’unica cosa che mi atterra davvero e mette filtri sporchi tra me e il mondo, e che da dentro non si vede, non si vede tutto da dentro il bozzolo della crisalide ma che son sicura che non tutta la leggiadria è necesse farfalla e che una lagna è una lagna ma raramente finge di saper volare e anche tra le lagne bisogna saper distinguere.
Cioè gli vorrei dire ste cose e vorrei anche non dirgliele, a Silvestro, allora gli faccio la torta, vah.

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Dolci di nome e di fatto

Tutto oggi chiedeva di ripartire da qui.

Stamattina l’improvviso azzurro, una volta tolto il ghiaccio dal vetro, non ha deluso il numero venti. Venti inverni.

Poi ho aperto una statistica e ci ho fatto numerologia, guarda qui, sembravano dirmi i numeri “dedicagli spazio” (e l’ossigeno che rincari al fuoco cede al mero inverno)

E così Silvestro, Silvestro che c’è sempre, Silvestro che corre senza tregua, Silvestro che se a luglio sono viva a lui lo devo, Silvestro che non è uno scherzo, Silvestro che lo sa quanti disastri, Silvestro che mi dice abbi però cura di ciò che hai, Silvestro che distingue bene e male, Silvestro che c’era quando non era lui a dover tenere il soffitto prima che crollasse, Silvestro e il sorriso certo dei miei dopo e dei durante.

Io sono stata una frana nelle dichiarazioni d’amore e di guerra ma grazie al cielo le dichiarazioni d’amicizia non abbisognano di troppo: è sufficiente un ingrediente alternativo, del cioccolato bianco, fioretto di mais, nocciole intere. Per fare la torta Silvestro, che spicca per segnare i miei primi passi di decorazione (con la famosa PDZ).

Che c’è un dolce per ogni amicale occasione e ierisera io entravo con amici vecchi e amici nuovi nell’amato solito locale e sulla lavagna del menù ho capito che non solo i numeri incrociano emozioni. Io sono il mio nome, una birra corsa e due marroni (la seconda però in molti la pensavano già).

E di musica non posso mancare che il 29 ottobre di sempre giovani ne nascon tanti; eccone uno dei grandi.

Tutto sto casino, eh, per dirti auguri.

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hai presente?

hai presente quando hai tanto caldo poi arriva il vento freschino e finalmente esci che te l’eri scritto da giugno che al 23 agosto volevi andare a quel concerto? e hai presente quando al concerto ci vai col golfino, più una speranza psicologica che altro, e parti dai laghi fai la A8 e arrivi a milano che non sanno cos’è il vento fresco e tu muori di afa? hai presente quando dici facimm’ampress che voglio tornare al fresco (foss’anche mettetemi in prigione preventiva che se non passa st’ondata di anticicloni ammazzo qualcosa lo sento?)

hai presente quando arrivi al Carroponte, che è una struttura di per sé tuonante, un po’ dispersiva forse per i concerti e c’è il gruppo di apertura che tu hai letto che ce ne sono due perché l’inglese è la tua lingua madre e hai letto opening act, fabularasa, e pensi che opening act sia uno dei due gruppi di apertura e i fabularasa l’altro?

hai presente che ti siedi per terra e la terra è così secca che i pantaloni lunghi (a casa c’era freschetto) si riempiono di restuccine tipo camporella e pensi saranno millenni che la parola camporella non dice nulla alla mia generazione, sarà rimasto solo il mio babbo a dirla? e che hai una canottiera color corallo regalo di una zia lontana che tua mamma si è ricordata di dartela solo ieri alla fine d’agosto? beh, era scollata e mi ci guardavano dentro? hai presente come fanno i maschi quando fingono di non guardarti le tette? e le donne? quelle non fingono nemmeno, tsk tsk?

hai presente un concerto che aspettavi da due mesi in un posto che non vende ghiaccioli che è  il tuo nutrimento di base dell’ultimo mese e a quanto pare dice la tizia della cassa perché non hanno trovato i fornitori? a sesto san giovanni i fornitori di ghiaccioli son merce rara, eh. e che gli son rimaste alla tizia della cassa tre e dico tre polpette di tonno da mangiare? cioé da far mangiare a me?

hai presente quando la voce del cantante ti piace un sacco, loro fanno un tour vecchio, portano in giro cioé uno dei primi album, dal titolo suggestivo, “gelaterie sconsacrate” che pensi eh già non li vendono i ghiaccioli allora davvero, non hanno il permesso? hai presente quando ti sei fatta i chilometri e alla fine non ti cantano la tua preferita? ma proprio non te la cantano, e tu esci dagli alti ferri del Carroponte contenta alla fine degli ennesimi orecchini comprati anche se a Silvestro non piacciono (e non piacciono nemmeno i cantanti, alla fine), delle polpette, dei non ghiaccioli, del gruppo di supporto che erano uno solo ma pure bravi i fabula rasa, contenta anche se niente canzone preferita, contenta di questa parola che hai, presente, ben presente. Hai presente?

PS. il gruppo segnato sull’agenda da due mesi erano i Virginiana MIller, io li ho conosciuti dopo questa canzone, con sottotitoli in latino (embé, direi) che però non è la mia preferita (ma quasi)

ma vaffengshui vah!

Attenzione: post ad alto tasso di parolacce.

Per distrarmi dalla variopinta idiozia che anima la sala professori dell’Istituto Durocome, mi sono data al feng shui. Anzi allo Space Clearing. Presente quando si compra un libro dove ti si dice che devi saperti liberare dei libri inutili? Ecco, cose così.

Siccome la felicità è tale se condivisa ora vi beccate un bel sunto del feng shui in questione.

1) Devo potenziare il mio Chi ed eliminare il Chi negativo. Chi? Chi è stato è a far sto casino?

2) Mi aggiro col metro in mano ma ancora non ho trovato i Cinque Gialli, Giove Granduca e i Tre Assassini che durante l’anno della scimmia stanno a sud. I soliti terroni.

3) La mamma dell’autrice del libro, rimasta vedova, è tornata felice solo quando le hanno buttato l’intera collezione del National Geographic del marito deceduto. Ecco, ora io sono zitella e le probabilità di maritarmi sono pari a quelle che il figlio del senatùr abbia una laurea (?) ma se dovesse mai capitare e muoio prima io del consorte, col cassero che gli lascio sugli scaffali le annate di Cucina Italiana e di Poesia di Crocetti.

4) Se il mio ingresso si apre a sud, la porta si apre a nord. Sto ancora cercando di decifrare la frase e già mi dice che, per proteggere la porta, devo visualizzare uno strato di luce blu perché tiene fuori le persone cattive. Attenti a voi, sto visualizzando una luce blu.

5) La pubblicità postale è spazzatura. Ma va? non l’avrei mai detto.

6) Considera la camera da letto come uno spazio sacro. Eh, n’ata vota. Ancora un po’ di rispetto del sesto comandamento e questa ce l’ho.

7) I sonagli a vento in legno a sud-est, quelli in metallo a ovest; qua ci vogliono gli 883. 7) bis il mio segno zodiacale cinese è il topo. Certo, se sto space clearing non lo inizio a dovere, io sono topo ma ne arriveranno presto altri cinque o sei, minimo.

8). Il portafoglio migliore è di colore rosso acceso. Tieni un biglietto da un dollaro che viene dalla tasca di una persona facoltosa, perché questo creerà per te l’energia della ricchezza.  Cazzzooooo, questo me lo dovevi dire primaaaaaa. Ufffaaaaa.

9) Bilanciare lo yin e lo yang di uno spazio. Gnapossofà. 9)bis Quando fare una purificazione psichica. ADESSO. Ora, subbito.

10) La testiera del letto non deve essere appoggiata alla parete che confina col bagno. Ora, io il letto potrei anche girarlo sull’altro lato ma io così dal letto mi vedo i ciliegi e il lago. Tié!

P.S. Poi per consolarmi del decluttering fallimentare, ho detto a Silvestro, mi fai un’ora di giardinaggio? Voglio il balcone fiorito, pieno pieno di geranei rossi, li ho visti al consorzio sulla provinciale, controlla tutto quel che ti serve, passa a comprarne un po’, mettili, fammi sto favore. Così la casa dentro fa schifo, ma fuori è bella. Risultato del balcone fiorito secondo Silvestro: un geranio, due vasi di fragole, una menta sudamericana che il vivaista ha garantito essere la migliore per il mojito (mi riferisce un Silvestro assai soddisfatto), e una pianta di pachino.

Forse dovrei riprovare quella cosa della luce blu, forse eh.

orecchie storte, cuore sghembo

dodicifebbraio

Oggi sarebbe stato il compleanno di nonna. Una donna contadina del 1923, di quelle che forse la prima volta che si sono sentite fare gli auguri di compleanno sono stata io, nonna auguri. E che è mo’ stu compleann? Febbraio 1998. Una tesi di laurea inventata lì per lì per fuggire, per laurearmi (ché non ne avevo più voglia di università, allora ancora un potentato milanese autoreferenziale). Fuggivo da tante cose quel febbraio. Fuggivo da Silvestro che non sapeva. Fuggivo da una Lombardia che non saprà mai.  Un mese con te, con la mia lana multicolore, coi ferri da maglia. Con un piccolo registratore, un quaderno verde, le cassettine. Senza telefoni cellulari (chebellezza). Un mese di febbraio caldo sull’Appennino, mi asciugavo i capelli al sole nel vicolo, avevo il viso colorito, fu un febbraio mite pieno di endecasillabi, di recite campestri.  Una tesi costruita intorno a te, nonna. Il tuo dialetto, la mia lingua delle origini.     

Oggi ho traversato il lago col ferry, nel vento siberiano. L’ho fatto restando sul ponte del ferry allo scoperto, davanti allo sguardo attonito degli altri passeggeri al di là dei vetri della cabina. Nonna, non era mica da non metter i guanti oggi. Cuopret ca face fridd, soffia na vòria.  Questa tua nipotina non cresciuta (ma quann lu truov lu zito cà poi lu tiemp pass e nun è ccosa cchiù) al freddo aveva il suo Ipod (non posso nemmeno spiegartelo cosa è l’Ipod, tu che impostavi la voce e tentavi di italianizzarti davanti al recorder che ti metteva in soggezione) (e che dovevi fare il contrario, nonna, dovevi lasciarmi il dialetto sul nastro). E l’auricolare al contrario che io ho le orecchie storte l’ho capito da tempo sto difetto,  il right non mi sta right e lo devo mettere sul left e il left sta sempre che mi cade. Non c’è peggior sordo di chi ha le orecchie storte.

Nonna se ne è andata come è venuta, in un giorno di febbraio mentre non c’ero, lasciandomi il solito senso di colpa. Se ne stava andando da tempo, a poco a poco, la mente si era rifugiata in qualche mondo lontano più sostenibile, dove vivere fosse più leggero che avere figli e nipoti e stare anziana tra gli anziani nel vicolo da sola, con quella telefonata puntuale del sabato alle 13 per anni, io a rispondere di corsa a te che urlavi “Marì” “nonna no sono io” e la felicità che provavi si allargava dal ricevitore. “Mia nonna si sta spegnendo” dicevo a quell’uomo che desideravo portare in Irpinia, che pensavo capisse quanto intrecciarlo alla mia storia fosse irreversibile. Nonna mi sono sbagliata, agg fatt rre ccos a mmalamend. Nonna, hai un bel nome che una bambina avrebbe portato con signorilità. Un nome fatto come il mio, esile, musicale, altero.

Un giorno avrò il cuore meno sghembo per ascoltare la tua voce sui nastri. Intanto se mi senti, buon compleanno.