non siamo Capaci

Ultim’ora

Ad una giudice dai capelli rossi sono arrivati dei proiettili via posta.

Rosse le mani del nero davanti alla telecamera, un dinoccolato inquietante.

Un milione di euro di TFR, mentre qualcuno fa il TFA per stare precario. Da ragazza guardavo l’NBA, c’era un giocatore bianco, basso, se basso era o era relativo.

Ad una giudice dai capelli rossi recapitano la posta, poi ragazzi vestiti di bianco che scendevano al porto, nati l’anno in cui son nati i miei, di ragazzi, che oggi ridevano tanto sentendo che la donna che ami è una lunga cagna, una pecchia, una pavida coniglia. Facevano ridere pure me.

Le mani rosse del nero e un moncherino agitato contro il nemico, cosa c’entra il nero, niente, forse, solo che un attentatore di quella famosa data di metà settembre alla scuola del monco ci è andato, una volta.

Se un giorno un mio alunno dicesse “cagna” alla sua donna, una volta è stato a scuola da me.

La giudice dai capelli rossi ha ricevuto una lettera con dei proiettili oggi, 23 maggio, mentre una scarpa in primo piano sotto i cartelli dell’autostrada e pietre divelte, ovunque. Ragazzi bianchi e al senato a commemorare un uomo che di cognome non fa magro. I miei ragazzi nascevano dopo, io c’ero a vent’anni, maggio luminoso, il dopo esplosione su tutte le tivù, al bar dove inseguivo il bellissimo milanese da sbarco di cui mi ero invaghita, un coicanomane, credo ma ho tirato le somme più tardi. E poi era di quella milano che commentava “si ammazzassero tutti tra loro”. Convinto che Cosa Nostra fosse loro.

Non l’ho più visto, non lo riconoscerei, chissà quale milano da bere se l’è mangiato. Di sicuro avrà votato vent’anni per il nemico di quella giudice coi capelli rossi che si vede eh che fa per antipatia, che non l’ha letto Tacito lei, sine ira et studio, che oggi ha ricevuto dei proiettili di anniversario.

Pedala!

Corrono le biciclette da quando eri bimba, e il tuo babbo lo ama il giro d’Italia e l’odore era quello del maggio, dello spolverio di luce dalle tapparelle abbassate, difendersi dai primi caldi, per vederli bene i corridori, alla tivù. La voce del cronista, non più la stessa, pomeriggi lunghi; leggevo Topolino, Gimondi (ce l’avevo anche alle biglie, in colonia); poi leggevo Piccole Donne, Saronni e Contini, poi le poesie di Piumini, Moser; poi con un salto profondo, leggevo il manuale assurdo di letteratura greca, e già dimenticavi i nomi, Fignon, Indurain, fino addirittura ai temi da correggere, ieri, ma l’odore di maggio passa dai raggi di bici e dal non disturbarlo, il babbo, a maggio.

Oggi, I pedalatori con la neve tradiscono il tempo, il piccolo di casa che in casa grida “il gruppo, si stacca si stacca, vince quello giallo, nonno”. Maggio ma odore di neve. Roba pesa, gennara. Pedala pedala gennara, l’hai voluta la bicicletta e ora pedala.

Ho pedalato in salita, ho fallito un paio di cronometro, ho indossato la maglia da vento rosa, che giorni appiccicati di caucciù per ora non sono, saranno, prima di sedermi in cima a un paracarro. Sì lo so sono scontrosa, o forse ho solo voglia di fare la pipì.
La fo, poi tornerò sul divano, in silenzio, col babbo, che a maggio va cosí…

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Tosto dopo il tiggì

Zapping selvaggio passando da quella cuoca benedetta che vorrebbe insegnarmi la focaccia col formaggio di malga e dice “iniziamo la ricetta per comodità con la focaccia già pronta” eccerto benedetta cuoca grazialcazzo almeno il formaggio di malga lo prepari tu capra? Zapping selvaggio termina su Azzurra TV, e va che bel telegiornale dico, già iniziato, però in ordine mi informano con
– un servizio sui Boeing 787 della compagnia nipponica, pare difettati, chiedono scusa
– un servizio su un attacco di oggi all’Università di Damasco mentre gli studenti erano in fila ad un esame
– un servizio sul dibattito negli Usa per l’uso delle armi dopo le due fresche sparatorie odierne in due diversi college, uno in Missouri, l’altro in Kentucky
– un servizio sul nuovo motore di ricerca di Facebook con tanto di informazioni sulla borsa per tale operazione e intervista al biondino Zuckerberg
– cronaca regionale: il decesso di una procuratrice molto in gamba
Comincio a dirmi che diamine di tiggì è questo, troppo ben fatto, ricco di inviati, per essere di una rete piccina come questa del VerbanoCusioOssola e parte l’ultimo servizio, lo sport e parlano di tennis (Australian Open) e poi la vittoria dell’Ambrì Piotta dopo una sonora “scoppola casalinga” (cit.)
E qui ogni dubbio si disperde che a vivere dalle mie parti impari presto a ridere pronunciando Ambrì Piotta e sapendo di hockey ghiaccio. Il tiggì è quello della RSI, la radiotelevisione svizzera.

Per dieci minuti penso agli studenti siriani, immagini crude di pietre e di sangue.

Zapping selvaggio passa per gli ultimi minuti su cronaca italica, quando a diciott’anni sei orfana, disoccupata ma ti sei dovuta sposare per adottare i tuoi tre fratellini e sui titoli di coda i titoli di un altro tiggì. E i primi servizi
– elicottero caduto nel centro di Londra, torna la paura di un attentato (annessa serie di cadute accidentali di velivoli tutti guarda caso dopo l’undici settembre)
– neve e freddo polare con previsto peggioramento
– il signor B., quel che ha detto il signor B., quello che il signor B. non avrebbe in realtà detto
– tommy, il pastore tedesco che commuove il paese tornando a cercare la padrona deceduta due mesi fa

Per dieci minuti penso agli studenti siriani, immagini crude di pietre e di sangue.

Altri titoli con i rischi del cyberbullismo e i dati allarmanti, la casa che nasconde pericoli per i bambini e l’alimentazione ricca di grassi sotto accusa (grazialcazzo che poi il tuo vicino di casa ti appare in mimetica sul pianerottolo in assetto da guerra) ( che poi la guerra la Francia la fa nel Mali e il ministro Terzi la farà per conto terzi ma era solo una notizia di coda)

Post stupido lo so, banale ma io è da stamane che penso agli studenti siriani, immagini crude di pietre e di sangue.

stoviglie color nostalgia

Mi portò a casa sua, a conoscere i suo genitori, stavamo insieme da poco, pochissimo, ed era più o meno questo periodo, novembre, quello che la gente comune da queste parti chiama “sotto Natale”, a giudicare dalla gente che ieri c’era nel negozio di superflua bellezza. Il novembre dei miei 18 anni, patente da poco, ero carina forte allora e non lo sapevo, magrina esile cascata di riccioli e quella roba lì, roba da ballare ad una festa da imboscati del liceo scientifico che io facevo il classico, lontano in città e uscivo con quelli dello scientifico di provincia (e il contrappasso che mi ha rimesso qui). Roba da ballare in una stanza vicino a lui tutta la sera senza scambiarci una parola che ero strana già a 18, io, poi quando me ne vado e solo quando me ne vado gli dico ciao magari se sabato prossimo ci ribecchiamo a una delle feste di sto giro, balliamo insieme, piacere roceresale e lui dice piacere claudio (o così ho capito io); roba che mi segue con le amiche e scrive a caratteri cubitali sulla condensa del vetro dell’auto il suo numero di telefono (l’amore ai tempi del telefono fisso). A me che ricordo ancora quelli delle elementari, di numeri, un numero di sei cifre le cui posizioni pari erano sempre zero. Potrei chiamare anche ora, mi risponderebbero sicuro i genitori di claudio che non era claudio che mi conobbero, sotto Natale.

A pochi mesi dalla guerra del Golfo, a poche ore dalle solite paure della gente di campagna del lupo cattivo, di nome Sadddam. Poi dissero al loro primogenito “l’è propri na tuseta” (esilina, la cascata di riccioli, e quella roba lì). E poi il primo esperimento (fallito) di suocera aggiunse al povero primogenito “e mi sa che è anche dall’altra parte” (perchè la regola mai parlare di politica con l’aspirante suocera mica la sapevo allora).

Dall’altra parte significava ancora comunista, per questi lombardi che son di Chiesa senza andarci in Chiesa, per quei lombardi sui cui valori bianchi, scudocrociati, di fertile produttività si innestarono da lì a pochi mesi i soli delle alpi e le ampolle del Po, del po’ di analisi che mi resta su queste terre (ma che ha fatto, interessante, Paolo Rumiz nel suo libro “La secessione leggera”)

Ierisera stavo così, come a diciott’anni. Un po’ delusa, incazzata, protestante davanti a fantasmi di neversuocere che le ho viste, con le loro tesserine elettorali, davanti a che tempo che fa anche se lo danno su rai tre. Come a diciott’anni, una tuseta che sta dall’altra parte. Dall’altra parte di quel presidente (oh toh, di nascita varesina) che è andato in tivù a dire balle, dall’altra parte di queste primarie. E siamo sotto Natale.

Io sono qualcosa che non resta…

32 dal 23

Mamma, di sabato sera partiva, coi treni di notte di quell’Italia lontana. Partire di notte, arrivare al mattino. Erano tempi di cassa integrazione; sai che faccio, ti lascio le bambine, vado da tua madre, da mia madre.

Babbo, di domenica sera, sedeva davanti al calcio. Io non ricordo, so che sorellina aveva un anno e mezzo, ricordo che prendevo sberloni ogni volta che le mordevo il sedere, tondo il sedere, io crudele. Sedeva davanti al calcio in tivù, c’era Napoli-Bologna quando alle 19.45 l’edizione straordinaria del Tg glielo interrompe il calcio e lo porta in un brutto sogno, fatto di telefoni che squillano con un paio di tu-tuuu e poi se ne perde il segnale.

I giorni a seguire, una traccia; telegiornali dopo telegiornali; io a carpire il nulla per me protettivo dagli adulti e l’ironia della parola “vedovo” che i vicini gli sdrammatizzavano addosso; io alle elementari, le suore, la messa del mattino “bambine preghiamo per la mamma di gennara”. Sì, lo ricordo nitido, lo sguardo della compagna antipatica, il suo Ave Maria più forte gettato negli occhi per dirmi “son brava, vedi come prego”. E dico, va bene, preghiamo per la mamma di gennara ma senza decidere che in fondo quella per cui pregare fosse davvero la mia. Di cosa pregavano,

Mamma?

Mamma, alle 19 circa del ventitré novembre, un novembre mite, strano e mite, cenava con la suocera, costretta su sedia a rotelle da una paresi, il suocero in cantina, sotto la strada, a distillare grappa con caldaietta un po’ fai da te. Che già dal pomeriggio gli dicevano Ro’ c’avita ffà cu chir cose, songh pericolos, Ro‘. Alle 19.34 mamma sente un boato e si dice “ecco, rru sapevo, chir suograme s’aviva stà‘”, dice è esplosa la roba in cantina ma poi il pavimento oscilla, capisce, prende la donna che non cammina, la tira per le braccia ma cadono tre volte, la terra la butta a terra le inchioda le ginocchia tre volte, prima di riuscire a trascinarsi fuori, al buio, nello spiazzo della “Cerza”. Novanta secondi, uno sputo di eterno se stai amando, sapete. Invece mia madre me lo dice quant’è  infinito un minuto e mezzo.

Ti dice del buio, di sua zia in cerca di lei con la torcia, delle urla della farmacista che chiedeva aiutatemi aiutatemi piangendo lo strazio di sapere una figlia sprofondata nelle viscere del palazzo. E mentre mia madre scende in quelle tenebre di crolli, conta i morti, tutti li ho contati i nostri morti, mi dice e sente i pianti dei bambini lì a fianco, che persero tutto. Furono mandati in un istituto, mi dice ma non sa di più. E dice di una cugina, le doglie, il parto, una figlia di quella notte.

Mi dice di essere tornata, qualche giorno dopo, quando poi l’Italia conobbe un suo pezzo discosto, paesi che erano presepi della grande fede sugli scontrosi Appennini; quando la gioventù solidale si mosse verso le nostre umili terre. Di non aver dormito per mesi, tornata, nella casa della mia infanzia così attaccata alla stazione da farla scuotere nel letto per il merci delle ventidue. Per mesi.

Me lo dice ora, da poco, perché le ho spezzato l’omertà del dolore da poco; ogni tanto le chiedo, le racconto di me, la cerco nei suoi racconti. Ora me lo dice senza sottrarsi a tutto quel dolore. Ora che 32 anni l’avranno levigato, ora che 32 anni hanno lenito lo strazio più forte, rinnovato in un attimo con L’Aquila, dove mia madre ha rami di famiglia, dove la famiglia è stata ancora una volta attraversata. Ora che 32 anni sono per molti solo l’eco della polemica sui fondi, sui soldi, sulla politica.

Ora che 32 anni sono passati su quelle delicatissime parole con cui, avvicinandosi alla collina, l’estate dopo, mio padre e mia madre tentavano di dire ai miei nove anni che avrebbero visto qualcosa di diverso. Che il campanile dov’è mamma? Ma i nove anni, lo sappiamo, vedono corto e solo ora dopo 32 anni ho la luce dell’abbaino addosso, che per arrivarci attraversavo la stanza dell’asino ma l’asino non c’era più era solo mio nonno divertito di farmi paura, e ho i gerani della loggia dentro agli occhi, gerani che così belli non li ho rivisti mai.

Dedicato a mia madre, al dolore delle madri, di quando generano, di quando incespicano; alla grande madre Irpinia, agli Appennini “che mi fan da vena dentro”.

Porta a scuola i tuoi sogni (e il flauto)

A conclusione della settimana mancava solo accendere la tivù, spenta da tre settimane, e vedere la sua faccia, la faccia di uno di cui amo la voce e le parole (lo dicevo anche qua, probabilmente in un impeto da titolo previsionale).

E ma l’amore è provvisorio, si sa. E cieco, e sordo. E oggi sto incazzata, troppo per amare.

La faccia di Vecchioni, sorridente, come quando dice sogna, ragazzo sogna. (guardatevela qua). Seeeeeeee. E il Miur è il Mulino Bianco, e la nostra scuola noi la amiamo, amiamola, sì, e tutti insieme cambiamo quello che non va. Buonissima la semplicità. Porta a scuola i tuoi sogni. Ma ora vaacacà.

Sai che dico? Dico che non si doveva prestare, il professore.

Aridàteme Banderas (e soprattutto il suo flauto).

a me mi piace vivere alla…

sono una di quelle che torna dal mare, non lava subito i costumi, lo farà, dopo, tanto non gli servono mica; il lago non è mare.

e così sto aspettando che asciughi il costume, in questo pomeriggio che c’è il cielo e il vento e le stelle lo promettevano già tutto quello che c’è, il trapuntino di stelle col Lagavulin saldo tra le mani sul molo più bello della sponda lombarda; che l’amica Tumistufi dice ma sto posto è una favola voglio una casa qua. Mettiti in fila, Tumistufi e prova a sposartelo te un dentista. Io passo.

e così sto aspettando che asciughi il costume per l’appuntamento annuale degli amici-colleghi; non sono né amici né colleghi miei ma la proprietà transitiva esiste, da anni, e ora aspetto il costume che asciughi, aspetto un sacco di cose, aspetto due colleghe-amiche, stavolta tutte mie fin dal primo punto e virgola che i punti e virgola non sbagliano mai a dirti che anima hai quando li metti a respirare scritti.

che poi stanotte magari lo rilavo di nuovo e lo metto ad asciugare il costume subito mentre recupero lo zapping notturno, anni mancati che io lo sapevo che solo d’estate la potevo rivolere la tivvù, per incantarmi su raistoria ad oltranza quando mi passa l’italia d’antan negli occhi. anzi l’italia mia, cantata al lavandino da mamma canterina paroliera, chi asciugava i piatti miei mamma cuoca era lei, chi in cucina cucinava mamma cuoca canticchiava, io la sera nel lettino…

i motivi per cui nel lessico familiare della gennara sia un caposaldo questa non ve li saprei nemmeno raccontare, forse sì, c’entra con quello che a sette anni non sai ma senti che ti apparterrà per sempre perché forse è tutto scritto, anche laddove il punto e virgola è stato mal usato, ma sto aspettando che asciughi il costume e quindi confesso che fin da quando ho sette anni

voglio sentirmi uguale uguale a un gatto rosa per essere sporcato e raccontare a tutti che sono immacolato,…a letto dove dormo, dove se posso sogno, dove non so capire se ho voglia o se ho bisogno e tu mi vieni a dire che adesso vuoi morire per amore…

Morire per amore? A me mi piace vivere alla grande già, girare per le favole in mutande…

una volta era tutta campagna

Tra i miei vezzi poststatunitensi c’è quello di continuare a guardare il David Letterman Show. Mi bevo il caffé di e da mammà e così il vizio di leggere veloce i sottotitoli l’ho attaccato puralléi. Oggi è stata la volta di Michelle Obama. Fine, elegante, un vestito colorato, le sue forme d’antan con quel vitino da vespa e quel didietro floridissimo. Eccola, a ricordare l’infanzia a Chicago, il padre della working class, la casa onebathroom piccola per quattro persone, a raccontare dell’educazione delle figlie, ad illustrare i progetti in cui è impegnata in prima persona: il sostegno alle famiglie dei militari e soprattutto “Let’s Move”.  E’ raro pensare alle città degli Stati Uniti come a luoghi in cui la popolazione soffre la fame e non ha accesso al cibo. Eppure è così. Se intendiamo accesso al cibo come cibo fresco, come in quei quartieri senza un fruttivendolo a meno di non attraversare la città. Perché io ricordo le lunghe strade in mezzo alle farms del Wisconsin o i campi di mirtilli e il mare di lobster del Maine; ma una turista quale ero, che ne sa davvero.

E allora penso alle contraddizioni del capitalismo, partendo proprio da quello americano. Alle catene di fast food, quelle sì diffuse capillarmente in ogni quartiere, penso a questa signora bellissima, la donna più in vista del mondo. Penso. (che è già molto). Più penso e meno ho cose intelligenti da dire. Penso che per marcare la differenza tra la sua infanzia e quella delle sue figlie ha detto che lei (e lo stesso Letterman) giocavano molto all’aperto, nel quartiere e del resto quando era bambina lei in tv c’erano SOLO sette canali. Così penso all’Italia e al sogno americano, perché mi veniva da ridere a pensare a quei SOLO sette canali come segno di arretratezza. Io ho fatto in tempo ad esser bambina solo con il primo canale della tivù di stato.

Non ho capito se Michelle mi è piaciuta oppure no (credo di sì), che poi in poche parole si tratta di insegnare agli americani a muoversi, a mangiare sano. ‘Na bazzecola, del resto. Però lo fa, convinta, retorica certo ma di retorica elegante, di retorica americana tutta famigliadeisoldati, tutta organic and green think, tutta valori disciplina amore per i figli. Sentire questo al lunedì quando alla domenica ti sei vista Report e la Fornero, capisci l’orto alla Casa Bianca e ben altro orto.

Sì, Michelle. Anche qua una volta era tutta campagna. (Elettorale)